Pellegrino Artusi

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Pellegrino Artusi (Forlimpopoli, 4 agosto 1820 – Firenze, 30 marzo 1911) è stato uno scrittore, gastronomo e critico letterario italiano, autore di un notissimo libro di ricette: La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene.

Biografia

Nacque a Forlimpopoli, nell'allora Stato Pontificio, figlio di un droghiere benestante, Agostino (detto Buratèl, cioè "piccola anguilla") e di Teresa Giunchi, natia di Bertinoro, in una famiglia numerosa: 12 fratelli; fu chiamato Pellegrino in onore del santo forlivese Pellegrino Laziosi. Come molti ragazzi di buona famiglia, compì gli studi nel seminario della vicina Bertinoro. La sua casa natale, posta sulla piazza centrale di Forlimpopoli, venne demolita negli anni '60 del '900. Negli anni tra il 1835 e il 1850, Artusi frequentò ambienti studenteschi bolognesi (in un brano di una sua opera afferma che era iscritto all'università), appassionandosi per i classici.
Ritornato nel paese natale, si inserì nell'attività commerciale di famiglia e, fra libri e spezie, condusse vita tranquilla fino ai trent'anni. La vita della famiglia Artusi venne sconvolta per sempre il 25 gennaio 1851: il pericoloso brigante Stefano Pelloni, detto il Passatore, assaltò Forlimpopoli con l'intento di rapinare le famiglie più ricche del paese e le varie istituzioni. La data non fu scelta a caso; infatti quella sera i più benestanti si erano quasi tutti ritrovati nel piccolo teatro all'interno della rocca per assistere al dramma La morte di Sisara. Catturati i pochi soldati e gendarmi papalini che presidiavano Forlimpopoli, la banda dei briganti penetrò in sala, ordinando a tutti i presenti di consegnare i preziosi. Il brigante prese in ostaggio all'interno del teatro tutte le famiglie, rapinandole una per una. Successivamente costrinsero un amico degli Artusi, i quali non si trovavano a teatro, a farsi aprire la porta della loro abitazione con uno stratagemma. Una volta entrati in casa, malmenarono Pellegrino ed iniziarono a far razzia d'ogni cosa. Terminata la raccolta del bottino, gli efferati banditi stuprarono alcune donne, e tra queste Gertrude, sorella dell'Artusi, che, impazzita per lo shock, dovette essere ricoverata al manicomio di Pesaro, dove poi morì; un'altra sorella rimase invece ferita. In seguito a questo episodio, la famiglia Artusi decise di abbandonare quelle terre infestate dai banditi e nel maggio si trasferì a Firenze, capitale dell'allora più sicuro Granducato di Toscana. Gli Artusi si stabilirono in Via dei Calzaiuoli, dove rilevarono un banco di vendita di seta. Pellegrino Artusi trovò occupazione a Livorno presso un'importante casa commerciale e, fattosi molto esperto in affari, fondò a Firenze un Banco di sconto, che gli diede buon nome e ricchezza.
Nel 1870, cinquantenne, Artusi si ritirò a vita privata per godere il frutto delle sue fatiche. Non si diede all'ozio, giacché si occupò più liberamente e con più diletto delle letture dei classici italiani (scrisse una Vita di U. Foscolo, nel 1878, e Osservazioni in appendice a trenta lettere di G. Giusti, nel 1880) e prese singolare gusto a scrivere ricette di cucina, avvalendosi di esperienze antiche e nuove. Pubblicò poi le sue creazioni nel famosissimo La scienza in cucina e l'arte di mangiare bene, del 1891.
Sposate le sorelle e morti i genitori, poté vivere di rendita, grazie alle tenute che la famiglia possedeva in Romagna (a Borgo Pieve Sestina di Cesena e Sant'Andrea di Forlimpopoli). Acquistò una casa in piazza D'Azeglio a Firenze, dove tranquillamente condusse la sua esistenza fino al 1911, quando morì, a 90 anni. Riposa nel cimitero di San Miniato al Monte.
Celibe, visse con un domestico del suo paese natale e una cuoca toscana, Marietta. Lasciò tutto in eredità al comune di Forlimpopoli: segno che, nonostante gli anni trascorsi in Toscana, non aveva mai dimenticato la sua terra d'origine.

Il caso del minestrone ed il colera

Di particolare interesse è una testimonianza dello stesso Artusi riguardo ad una sua disavventura, avvenuta durante la stagione dei bagni a Livorno, nel 1855, quando lo stesso gastronomo entrò a diretto contatto con il colera, la malattia infettiva che in quegli anni mieteva molte vittime in Italia.
Giunto a Livorno, Artusi si recò in una trattoria per cenare. Dopo avere consumato il minestrone, decise di prendere alloggio presso la palazzina di un certo Domenici in piazza del Voltone. Come Artusi testimonia, passò la notte in preda a forti dolori di stomaco e diede la colpa per questi ultimi al minestrone. Il giorno dopo, di ritorno a Firenze, gli giunse la notizia che Livorno era stata colpita dal colera e che il Domenici ne era caduto vittima. Fu allora che comprese chiaramente la situazione: non era stato il minestrone, ma erano i primi sintomi della malattia infettiva a procurargli i forti dolori intestinali.
L'episodio convinse l'Artusi a scrivere una personale e celebre ricetta del minestrone.

Opere

Tre furono le opere di Artusi: due saggi di critica letteraria e un manuale di cucina.
I saggi - una Vita di Ugo Foscolo e le Osservazioni (uno studio critico su trenta lettere di Giuseppe Giusti) - passarono quasi completamente sotto silenzio, ed ebbero poche edizioni.
Il manuale, dal titolo La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene, dopo un iniziale insuccesso alla sua prima pubblicazione, nel 1891, fece raggiungere invece al suo autore la popolarità. Il volume è tuttora in stampa da oltre cent'anni ed è stato tradotto in diverse lingue, tra le quali, ultima in ordine cronologico, il portoghese.
L'opera di Artusi, considerata la prima trattazione gastronomica dell'Italia unita, è stata riscoperta e valorizzata dall'edizione critica curata da Piero Camporesi nel 1970, che ha prodotto come risultato indiretto l'inserimento a pieno titolo del trattato gastronomico artusiano nel canone della letteratura italiana. Il titolo è di chiara matrice positivistica. Artusi, ammiratore del fisiologo monzese Paolo Mantegazza, esaltava il progresso ed era fautore del metodo scientifico, metodo che applicò nel suo libro. Il suo, infatti, può essere considerato un manuale "scientificamente testato": ogni ricetta fu il frutto di prove e sperimentazioni.

Importanza linguistica e culturale

L'opera di Artusi, in particolare La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene, è considerata importante anche per la diffusione della lingua italiana sul territorio nazionale. Infatti, "scritto in una lingua fluida, elegante e armoniosa, quel libro divenne familiare a generazioni di italiani e soprattutto di italiane, fu una presenza preziosa e amica: straordinario esempio di opera dinamica e aperta, che cresce come raccolta comunitaria e condivisa, non solo con i due domestici ma col pubblico che attivamente partecipa, suggerisce, critica. La Scienza diffonde nelle case degli italiani un modello di lingua fiorentina fresca e viva, ma insieme corretta e controllata, sensibile alla tradizione letteraria".

Intitolazioni

A Forlimpopoli vi sono una statua, un busto, una strada, un istituto alberghiero e la biblioteca intitolate all'Artusi. Il 23 giugno 2007 è stato inaugurato nei locali attigui alla Chiesa dei Servi il museo Casa Artusi che raccoglie documenti e cimeli della storia della cucina casalinga italiana.
Numerosi istituti alberghieri italiani sono intitolati alla memoria di Pellegrino Artusi.
Dal 1997 il comune di Forlimpopoli, suo paese natale organizza la "Festa Artusiana", manifestazione dedicata alla gastronomia comprendente eventi di cultura e spettacolo. Tra gli eventi principali vi sono: l'assegnazione del "Premio Pellegrino Artusi" a un personaggio che si sia distinto per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo; il "Premio Marietta", intitolato alla collaboratrice di Pellegrino Artusi, assegnato ad una donna o ad un uomo di casa abile artefice - nello spirito di Pellegrino e di Marietta - di ghiottonerie domestiche.

Arvoltolo

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L’Arvoltolo è una pizzetta fritta tipica dell'area del Lago Trasimeno, diffusa in due varianti: dolce e salata. Ha origini molto antiche; infatti, era presente nella cucina contadina umbra sin dal XVII secolo e veniva consumata nelle giornate di festa, come colazione o merenda. Nell'area dell'orvietano gli arvoltoli prendono il nome di tortucce. Sono chiamati anche "poltricce"' o "frittelle" o "fregnacce", secondo il vernacolo dei luoghi di provenienza; oggi, si trovano prevalentemente sulla tavola delle famiglie più legate alla tradizione, in alcuni ristoranti di cucina tipica e nelle sagre paesane.

Ingredienti

Dosi consigliate per 4 persone:
  • 8 cucchiai di farina di grano tenero
  • 5 cucchiai di olio extravergine di oliva
  • Acqua qb.
  • Sale o zucchero a scelta
  • Olio di semi per friggere

Preparazione

Versare farina, acqua e olio in una terrina, mescolando con cura, evitando la formazione di grumi. Dal composto ottenuto ricavare dei dischetti, si consiglia di bucare la pasta con una forchetta, in modo che non si gonfi. Nel frattempo, scaldare l'olio di semi in una casseruola. Friggere nell'olio bollente i dischetti, uno alla volta, girandoli, fino a farli dorare da entrambi i lati. Togliere dall'olio e farli asciugare su carta assorbente, eliminandone l'eccesso. Cospargerli con zucchero o sale, a seconda dell'uso. Sono ottimi serviti caldi come antipasto da consumare con affettati o come dolce da consumare a fine pasto.

Eventi e sagre

La tradizione culinaria dell'arvoltolo rivive nel periodo estivo nelle caratteristiche sagre paesane. In particolare, nel mese di luglio si svolge la Sagra della Tortuccia a Castel Giorgio, che propone questo piatto nelle versioni salate, dolci (con lo zucchero o con la Nutella) e farcite (con i salumi o con le verdure). Inoltre, tra luglio e agosto si svolge la Sagra del Cinghiale a Spezzatino, dell'Arvoltolo e dei prodotti tipici umbri a Migliano e a settembre la Sagra dell'Arvoltolo a Olmeto.

Curiosità

«Il nome arvoltolo deriva forse proprio dalla necessità di girare e rivoltare (arvoltare, in perugino) la pastella, per permetterne la cottura da entrambi i lati.»
(Trotta, 2011 op. cit.)

Involtino estate

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Gli involtini estate (in vietnamita gỏi cuốn, letteralmente "involtino di insalata") sono un piatto della cucina vietnamita che consiste di maiale, gamberi, erbe, vermicelli di riso e altri ingredienti avvolti in carta di riso (bánh tráng). Sono serviti a temperatura ambiente, e non sono fritti.
Si trovano alla 30ª posizione nella classifica dei "50 cibi più deliziosi del mondo" redatta da CNN Go nel 2011.

Nước chấm

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Il nước chấm è una varietà di salse usate nella cucina vietnamita come condimento per accompagnare finger food, come gli involtini primavera, o altri piatti quali bánh cuốn, chả giò, bánh xèo, gỏi cuốn o cơm tấm.
La variante più diffusa è il nước mắm pha, a base di succo di limone (o limetta), salsa di pesce, zucchero ed acqua. A questa vengono solitamente aggiunti aglio tritato, peperoni tritati o carote a listelle.

Salsa di pesce

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La salsa di pesce è un condimento derivato da pesce che ha subito un lungo processo di fermentazione. È un ingrediente essenziale in molti piatti, zuppe e curry indocinesi e sostituisce il sale.
È un ingrediente base per molte cucine come quella vietnamita, thailandese, laotiana, cambogiana, filippina, cinese e altri paesi del Sud-est Asiatico. Può essere aggiunta a qualsiasi piatto durante il processo di cottura o mescolata ad altri condimenti in differenti maniere a seconda degli usi locali di ogni Paese menzionato: con il pesce, crostacei, molluschi, pollo e tutti i tipi di carne. Nella Cina del Sud, viene usata spesso nella zuppa, nel brodo e per la casseruola.

Tipi

Ce ne sono di molte varietà: forti e meno forti, alcune sono fatte con pesce crudo, altre con pesce essiccato, alcune con vari tipi di pesce, altre con solo una varietà. Si possono trovare anche varietà rare composte solo dalle viscere o di solo sangue. Possono essere al naturale o più o meno salate, con o senza erbe e/o spezie e talune piccanti. La fermentazione provoca un particolare retrogusto che si avvicina al formaggio stagionato.

Sud-est asiatico

La "salsa di pesce" del Sud-est asiatico è spesso composta da acciughe (o seppie), sale e acqua, e viene usata con moderazione perché dal sapore piuttosto intenso. Il tipo di pescato usato viene messo in casse di legno a fermentare con il sale e viene pressato lentamente fino a fare fuoriuscire il liquido di pesce.
In Vietnam viene chiamata nước mắM, in Thailandia nam pla (น้ำปลา), in Myanmar ngan byar yay, in Laos nam pha, in Cambogia teuk trei e ask jeot in Corea, dove è usata come ingrediente cruciale per la preparazione del kimchi. In Laos e nell'Isan, la regione nord-est thailandese al confine laotiano, viene prodotta artigianalmente anche una particolare salsa densa che ha un sapore e odore molto forti ed è ottenuta con una lunga macerazione di pesci d'acqua dolce. La versione laotiana è chiamata pha dek e quella dell'Isan pla ra.
La semisolida pasta di pesce indonesiana trasi, la cambogiana prahok, le malesi krill, belacan o budu e la filippina patis, derivate tutte da acciughe, sono varianti sullo stesso tema. Sempre nelle Filippine, ma anche in Laos e nell'Isan, si usa spesso da sola come condimento a crudo sulle verdure, a volte amalgamata con acqua e qualche volta intiepidita.
Nel Sud-est Asiatico generalmente la salsa di pesce si usa nella cottura. Ci sono anche versioni meno salate che vengono usate come condimento a crudo. In Thailandia, dove tutte le varianti di salsa di pesce vengono usate sia per cucinare sia come condimento, viene servita al tavolo la prik nam pla, salsa di pesce con l'aggiunta di peperoncino fresco tagliato a fettine, nelle versioni più elaborate con succo di lime e aglio sminuzzato.

Occidente

La "salsa di pesce" asiatica potrebbe essere assimilata all'antico e scomparso garum, una salsa liquida di interiora di pesce e pesce salato che gli antichi Romani aggiungevano come condimento a molti primi piatti. Alcuni sostengono fosse simile alla pasta d'acciughe, altri al liquido della salamoia delle acciughe sotto sale, ma molto probabilmente, durante i vari processi di lavorazione, si sarebbe potuto produrre entrambe le varietà, e quasi sicuramente ogni regione dell'Impero aveva la sua variante, probabilmente in base al pescato. Nell'Italia odierna si trova invece la più classica pasta d'acciughe, un composto di alici essiccate e fermentate sotto sale poi private della testa e deliscate e successivamente tritate fino a rendere il composto cremoso. Viene usata in vari condimenti come amplificatore di gusto a varie pietanze come la pizza, la bagna càuda o il bagnun o semplicemente per farcire tartine, snack e salatini. La variante italiana che si avvicina di più alla "salsa di pesce" asiatica è probabilmente la colatura di alici di Cetara, una salsa liquida trasparente dal colore ambrato che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici.

Colatura di alici di Cetara

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La colatura di alici di Cetara è un prodotto agroalimentare tradizionale campano, prodotto nel piccolo borgo marinaro di Cetara, in Costiera Amalfitana.
La colatura di alici è una salsa liquida trasparente dal colore ambrato che viene prodotta da un tradizionale procedimento di maturazione delle alici in una soluzione satura di acqua e sale. Le alici impiegate sono pescate nei pressi della costiera amalfitana nel periodo che va dal 25 marzo, che corrisponde alla festa dell'Annunciazione, fino al 22 luglio, giorno di Santa Maria Maddalena.

Storia

Le origini di questo prodotto gastronomico risalgono ai Romani, che producevano una salsa molto simile alla colatura odierna, chiamata garum. La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l'azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l'utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.

Preparazione

Alle alici, appena pescate, vengono rimosse la testa e le interiora, vengono quindi tenute per 24 ore in contenitori con abbondante sale marino. Sono quindi trasferite in piccole botti di castagno o rovere (dette terzigni), alternate a strati di sale, e ricoperte da un disco di legno sul quale sono posti dei pesi, via via minori col passare del tempo. A seguito della pressione e della maturazione del pesce, affiora del liquido in superficie che, nel caso di preparazione di alici sotto sale, viene rimosso. Questo liquido fornisce la base per la preparazione della colatura di alici. Viene infatti conservato in grossi recipienti di vetro ed esposto alla luce diretta del sole che, per evaporazione dell'acqua ne aumenta la concentrazione. Dopo circa quattro o cinque mesi, tipicamente quindi tra la fine di ottobre e l'inizio di novembre, tutto il liquido raccolto viene nuovamente versato nelle botti con le alici, e fatto lentamente colare attraverso un foro, tra gli strati di pesce, in modo da raccoglierne ulteriormente il sapore. Viene infine filtrato attraverso teli di lino, ed è quindi pronto per gli inizi di dicembre.
Viene usata tipicamente per condire gli spaghetti e le linguine che debbono essere cotte senza sale, essendo la colatura di alici molto salata. A Cetara questo piatto è tipico della vigilia di Natale.

Uso

La colatura d'alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la scarola per la pizza ripiena; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietole, spinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodori, olive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.

Cucina nell'antica Roma

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(LA)
«Pulte, non pane, vixisse longo tempore Romanos manifestum»
(IT)
«Di polta e non di pane vissero per lungo tempo i Romani»

Seneca nel criticare la sregolatezza dei costumi dei suoi contemporanei attribuiva la crisi delle antiche doti morali alla perdita dell'antica frugalità, a quella parsimonia veterum che in effetti si riscontra nelle abitudini alimentari primitive quando i latini si nutrivano di polente (puls) in parte sostituite nel II secolo a.C. dal pane.
Nei tempi arcaici il piatto nazionale romano erano le crocchette rapprese di polenta di miglio cotta nel latte (puls fitilla), poi la vera e propria polenta (era chiamata così in latino la farinata di orzo) e infine, arrivati a una certa agiatezza, soprattutto di puls farrata o farratum, una più saporita e nutriente (molto più ricca di proteine) polenta di farro (Triticum nonococcum o farro piccolo, e T. dicoccum o farro medio) cotta in acqua e sale, con i più diversi contorno di legumi, verdure, mandorle, pesciolini salati (gerres o maenae), frutta, formaggi e, raramente, di carne.

La frugalità antica

La sobrietà alimentare caratteristica della virtus romana era negli stessi inizi leggendari di Roma quando sulle navi di Enea, secondo il racconto di Virgilio, durante una travagliata navigazione durata sette anni, i marinai troiani potevano nutrirsi quasi esclusivamente della polenta di farro accompagnata dai pesci pescati durante il viaggio e dalla poca carne acquistata nei porti.
Un'alimentazione quella antica fatta soprattutto di vegetali, com'era nell'uso dei vicini etruschi da cui nei periodi di carestia provenivano a Roma lungo il Tevere i rifornimenti di grano («ex Tuscis frumentum Tiberi uenit») che permisero dal II secolo a.C. la produzione del pane di cui esistevano tre qualità: quello candidus, fatto di farina bianca finissima, secundarius sempre bianco ma con farina miscelata ed infine quello plebeius o rusticus una specie di pane integrale.
Dagli stessi etruschi più ricchi ai quali «le possibilità economiche e le necessità del decoro gentilizio lo consentivano» giunse a Roma l'abitudine di nutrirsi di un cibo più variato e ricco di proteine costituito sia da selvaggina che da animali di allevamento.
Quando poi Roma entrò in contatto in età ellenistica con i Greci della Magna Grecia da loro imparò ad apprezzare i frutti dell'olivo e della vite che aveva usato fino a quel momento soprattutto per i riti religiosi.
A partire dall'età di Augusto, con la conquista dell'Oriente e gli intensi rapporti commerciali con l'Asia arrivò a Roma «tutto quanto la terra produce di bello e di buono». E l'alimentazione romana si raffinò: al cibo inteso come puro sostentamento cominciò in epoca imperiale a sostituirsi, anche con l'uso delle spezie e dei profumi, il gusto e la cultura del cibo, passando dalla pura alimentazione ai sapori.

I pasti

I romani dividevano normalmente la loro alimentazione in tre pasti quotidiani che agli inizi erano chiamati ientaculum, cena, vesperna e quando quest'ultima sparì, fu sostituita dal prandium. Raramente i romani dedicavano molta attenzione ai primi due pasti che non erano mai molto nutrienti e il più delle volte abolivano uno dei primi due.
Alcuni anziani seguivano l'ordine dei tre pasti perché così avevano loro consigliato i medici come a Plinio il vecchio, sempre molto frugale, e a Galeno che consumava lo ientaculum verso l'ora quarta. I soldati si accontentavano di un prandium verso mezzogiorno. Marziale ci descrive il suo ientaculum costituito da pane e formaggio, mentre il prandium consisteva in carne fredda, verdura, frutta e un bicchiere di vino miscelato con acqua.
Ancora più limitato lo ientaculum di Plinio il Vecchio (cibum levem et facilem) a cui seguiva una merenda per prandium (deinde gustabat) il tutto senza apparecchiare (sine mensa) e senza doversi lavare le mani (post quod non sunt lavandae manus).

Il garum

Per la maggioranza dei romani la colazione consumata prima di recarsi al lavoro era semplicissima: un bicchiere d'acqua o qualcosa rimasto dalla cena della sera prima. Per quanto invece riguarda il prandium, i poveri e la plebe certo non tornavano in casa per desinare, ma il più delle volte mangiavano nelle tabernae dove si consumava del pane con companatici semplici come uova sode, formaggio, legumi e si beveva vino mescolato con acqua calda d'inverno o fredda d'estate. Si usava insaporire i cibi con il garum, la cui ricetta ci è stata tramandata da Gargilio Marziale: una salsa liquida a base di pesci sotto sale, specialmente teste di acciughe sotto sale ed erbe aromatiche - simile, ma più aromatica, alle attuali salse orientali di pesce, come il nuoc-mam -, che i ricchi versavano a gocce come condimento su svariate pietanze. Del garum esistevano numerose varianti, a seconda dei pesci o delle interiora usate, o del periodo di maturazione. Unendovi aceto, pepe ed altre spezie si otteneva l'oxygarum anche questo reperibile in una salsa ancor oggi in commercio. La parte solida che restava dalla macerazione dopo averne estratto per pressione il liquido residuo (garum oppure liquamen, quest'ultimo probabilmente più diluito e forse dolcificato) era l'allec, che doveva somigliare per sapore alla nostra pasta d'acciughe, ma più aromatica. Era una raffinatezza adatta agli antipasti, e nella sua versione economica (ottenuta da garum di interiora) una ghiottoneria alla portata del popolo: servitori, soldati e contadini usavano spalmarla sul pane per insaporirlo, visto che ne consumavano grandi quantità, anche un chilo al giorno.

La cena

Per tutti il pasto principale era quindi la cena, che molti immaginano, secondo una diffusa leggenda di stampo classico e classista, come uno sfarzoso banchetto ma che in realtà, salvo quelli che potremo considerare come ricevimenti particolari, cioè casi molto rari, era per i più altrettanto frugale dei primi due pasti. In sostanza, la stragrande maggioranza dei Romani mangiava normalmente seduta su panche (raramente su sedie) e attorno ad un tavolo, come noi.
Infatti, Roma e tutta la società dell'epoca, erano composte di un larghissimo strato popolare fatto da persone povere o poverissime, che vivevano in strette stanzette per lo più in affitto, prive di cucina, nelle scomode e pericolose insulae, case alte fino a 8 piani. Essendo l'unica affollatissima culina (cucina) del palazzo sistemata nell'atrio comune, una sorta di cortile, molti erano ridotti a cucinare alla meglio sui bracieri, e altri ancora acquistavano addirittura l'acqua bollente nei thermopolia (i bar dell'epoca) alla base delle insulae. Questa gente mai avrebbe potuto permettersi triclini (che fanno più parte dell'arredamento di una domus, una grande casa con ampie stanze e servitori) e pietanze raffinate, se non - durante l'Impero e mettendo da parte risparmi - per il pranzo di nozze nei triclini d'affitto messi a disposizione dalle tabernae (le osterie).
Lo storico Jérôme Carcopino ha calcolato che su un milione di abitanti della Roma di Augusto (II sec.) appena 1780 erano le domus, cioè le case patrizie, ovvero le abitazioni monofamiliari, ricche, capaci di triclinio e servitori. Una proiezione induttiva porta a ritenere che appena lo 0,2 per cento, ossia 2000 persone su un milione, in pratica il ristrettissimo ceto dominante, l'aristocrazia, i ricchi e gli intellettuali, spesso invitati, potessero cenare adagiati sul triclinio (N. Valerio, cit., pag. 144).
L'ora in cui iniziava la cena era per la maggioranza dei romani la stessa, quella che seguiva il bagno alle terme: l'ottava in inverno e dopo la nona in estate. Questo ad esempio è l'orario per la famiglia di Plinio il Giovane e quello che Marziale dà al suo amico Giulio Ceriale per cenare assieme nella sua casa.
La cena di solito terminava prima che fosse notte fonda, fatta eccezione per i grandi banchetti: quelli di Nerone, ad esempio, si prolungavano da mezzogiorno sino a mezzanotte, il festino di Trimalcione non finiva prima dell'alba, e i gaudenti, indicati alla pubblica riprovazione da Giovenale, s'ingozzavano sino «al sorger di Lucifero nell'ora che i duci movean le schiere in campo».
I fastosi banchetti erano una forma di ostentazione della ricchezza delle classi agiate che tramite le cene conseguivano notorietà: «Non è sufficiente, per te, Tucca, essere goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire...».
Di solito si curava particolarmente l'allestimento del banchetto attraverso effetti scenografici, ad esempio con fiori e giochi d'acqua che esaltassero la magnificenza dei cibi offerti agli invitati. Per una cena offerta da Nerone, racconta Svetonio, vennero spesi per la sola decorazione floreale oltre quattro milioni di sesterzi.

Il triclinium

Alla cena, nella casa dei più ricchi era riservata una stanza particolare: il triclinium, di solito lunga il doppio della sua larghezza, che prendeva il nome dai letti a tre posti (triclinia) dove si stendevano i commensali. Nei tempi passati le donne erano destinate a sedere ai piedi del marito ma in età imperiale le matrone romane hanno acquisito il diritto al triclinio mentre ai ragazzi erano destinati degli sgabelli di fronte al letto dei genitori. Gli schiavi solo nei giorni di festa potevano essere autorizzati dal padrone all'uso del triclinio che quindi era collegato non solo alla comodità, piuttosto relativa per le nostre abitudini, ma che soprattutto veniva considerato un segno di benessere e distinzione sociale.
Ma eccetto che i pochissimi ricchi, potenti o intellettuali, cioè circa lo 0,2 per cento della popolazione romana del primo impero, come calcolato da Jérôme Carcopino, tutti gli altri, cioè il 99,8 per cento, mangiavano come noi attorno ad un tavolo, anzi seduti su scomode panche senza spalliera. L'aneddoto secondo cui l'austero Catone l'Uticense, per il dolore provato dalla sconfitta dell'esercito del senato a Farsalo, giurò di mangiare seduto sino a quando non fosse finita la tirannide di Cesare prova solo che Catone l'Uticense per quanto austero era un membro famoso e potente della ristrettissima minoranza sociale ed economica che governava Roma, per la quale il triclinio era ovviamente un segno di distinzione acquisito.
L'assegnazione dei posti nei letti era prevista da una rigorosa etichetta che prevedeva che il personaggio più illustre sedesse nel lectus medius, al posto consularis, il più importante, accanto all'invitato meno ragguardevole che trovava posto nel lectus imus. Di solito i letti erano tre con al centro una tavola quadrata o circolare: i commensali sedevano di sghembo con il gomito sinistro appoggiato su cuscini e i piedi, senza scarpe e lavati, nella parte più bassa del triclinium.
Un maggiordomo annunciava gli invitati mano a mano che arrivavano alla cena e assegnava loro il posto stabilito. I servitori disponevano le varie portate sulla tavola ricoperta da una tovaglia: uso questo iniziato dall'età di Domiziano in poi, precedentemente si lavava di volta in volta la superficie in marmo o legno della tavola.
Gli invitati avevano a disposizione coltelli, stuzzicadenti dal doppio uso con un piccolo cucchiaino a forma di manina ad una estremità che veniva usato per pulirsi le orecchie, e cucchiai di varia forma. Niente forchette, che non erano conosciute, per cui era necessario lavarsi frequentemente le mani tra una portata e l'altra: compito assolto da servi che versavano acqua profumata da anfore e fornivano un tovagliolo per asciugarsi le mani. Tovagliolo che avevano anche i commensali che per lo più se lo portavano via al termine della cena con le pietanze che erano avanzate (apophoreta).

I cibi e il vino

Il banchetto prevedeva almeno sette portate (fercula)
(LA)
«Quis fercula septem secreto cenavit avus?»
(IT)
«Chi dei nostri avi pranzava da solo con sette portate?»
Svetonio, nel descrivere i pasti dell'imperatore, Ottaviano Augusto, sostiene che fossero modesti:
(LA)
«Cenam ternis ferculis aut cum abundantissime senis praebebat, ut non nimio sumptu, ita summa comitate. Nam et ad communionem sermonis tacentis vel summissim fabulantis provocabat, et aut acroamata et histriones aut etiam triviales ex circo ludios interponebat ac frequentius aretalogos.»
(IT)
«Faceva servire tre portate o sei quando esagerava, non spendendo eccessivamente, seppure risultando estremamente affabile. Infatti, quando gli ospiti tacevano o parlavano a voce bassa, li trascinava in una conversazione generale o faceva intervenire narratori, istrioni e anche ordinari attori del circo, più frequentemente ciarlatani.»
(Svetonio, Augustus, 74.)



Si cominciava con gli antipasti (gustatio) poi tre primi piatti, due arrosti e il dolce (secundae mensae).
In questi grandi ricevimenti quello che importava non era soltanto l'abbondanza e la qualità dei cibi offerti ma anche la loro presentazione scenografica necessaria per stupire i commensali ma che comportava una mescolanza di cibi spesso incompatibili tra loro e dannosi per la salute. Tipico caso è l'episodio di Trimalcione che durante il banchetto, si scusa con gli invitati perché è costretto ad assentarsi per fastidiosi disturbi di stomaco che il medico non è riuscito ancora a guarire. L'eccessiva elaborazione dei piatti portava conseguenze dannose per la salute dei più ricchi spesso malati di obesità, gotta e calcolosi. Anche Orazio osserva come «a che punto la varietà dei cibi sia nociva per l'uomo puoi capirlo se ripensi a come hai facilmente digerito quella pietanza semplice che hai mangiato un giorno, mentre invece non appena gli avrai mescolato il bollito e l'arrosto, i molluschi e i tordi… si genererà lo scompiglio nel tuo stomaco».
E se da un lato Augusto risultò sobrio nell'utilizzo di cibi e vino, con gusti quasi volgari, preferendo il pane comune, i pesciolini, il formaggio di vacca pressato a mano, i fichi freschi (della specie che matura due volte all'anno), vi erano altri imperatori che fecero della ricercatezza ed originalità a tavola una loro caratteristica. È il caso di Gallieno, il quale, secondo la Historia Augusta
«[...] in primavera si faceva preparare giacigli di rose, costruiva castelli di frutta, conservava l'uva per tre anni, in pieno inverno imbandiva dei meloni. Insegnò il modo di conservare il mosto per tutto l'anno ed offriva, anche fuori stagione, fichi verdi e frutta appena colta dagli alberi. Faceva sempre apparecchiare le tavole con tovaglie d'oro, facendosi preparare vasellame ornato di gemme e d'oro. [...] Banchettava in pubblico.»
(Historia Augusta - Due Gallieni, 16.2-5.)
«Beveva sempre in coppe d'oro, disprezzando il vetro, e affermando che nessun materiale era più comune. Cambiava sempre qualità di vino e nel corso di uno stesso banchetto non beveva mai due volte la stessa qualità. Le sue concubine sedevano spesso nei suoi tricilini. La seconda portata disponeva della presenza di mimi e buffoni.»
(Historia Augusta - Due Gallieni, 17.5-7.)
Il vino bevuto dai romani nei tempi antichi doveva consistere in una specie di mosto fermentato ma già alla fine della Repubblica si cominciò a mescolare diverse qualità di uve migliorandolo nel sapore. È soprattutto nel periodo imperiale che si comincia ad importare vini dalla Grecia che si mantenevano più a lungo perché miscelati con acqua di mare, argilla o sale che però secondo Plinio il Vecchio sono in questo modo nocivi per la salute dello stomaco e della vescica. Lo stesso Plinio raccomanda di non eccedere nel bere vino che porta all'ubriachezza quando «l'alito sa di botte … e la memoria è come morta...mentre coloro che bevono pensano di prendere in pugno la vita, ogni giorno, come tutti, perdono il giorno precedente, ma ancor più quello successivo»
L'usanza di bere vino miscelato con acqua derivava direttamente dai greci come testimoniano frammenti di Ateneo, Anacreonte (VI secolo a.C.) ed in Filocoro (IV secolo a.C.). L'uso si ritrova ancora nella prima metà del secolo IV dopo Cristo nella raffigurazione di un banchetto nelle catacombe romane dei SS. Marcellino e Pietro ove, oltre al vasellame e alle anfore, compare anche uno scaldabevande.
Il vino, mescolato a resine e pece, era conservato in anfore chiuse con tappi di sughero o di argilla munite di una targhetta che ne indicava l'annata e la denominazione. Pochi erano quelli che potevano bere il vino puro e venivano considerati come sregolati ubriaconi mentre normalmente il vino veniva servito filtrato con un colino e mescolato con acqua in una grande coppa, il cratere, da cui poi ognuno si serviva.
Un banchetto degno del suo nome non poteva non essere accompagnato da intermezzi in cui si esibivano in danze scollacciate, per cui erano celebri, le donne di Gades che ballando a suon di nacchere lasciavano poco all'immaginazione degli invitati che nel frattempo favorivano la digestione lasciandosi andare, poiché non bisogna contrastare la natura, a rutti e, ottemperando al ridicolo decreto dell'imperatore Claudio, all'emissione di gas di altra specie. Si arrivava addirittura a servirsi durante il banchetto di appositi vasi per bisogni più consistenti.

La commissatio

Nei grandi banchetti, quando ormai gli invitati sono pieni di cibo, vi è poi una seconda parte secondo la tradizione della commissatio. Già durante la cena si era bevuto abbondantemente vino con miele e successivamente vino miscelato con acqua.
La cerimonia che poneva fine al banchetto, prevedeva che si bevessero d'un fiato una serie di coppe così come prescriveva chi presiedeva la commissatio. I convitati disposti in cerchio a partire dal più importante bevevano passandosi la coppa e brindando, oppure veniva scelto un invitato a cui tutti bevendo brindavano con tante coppe quante erano le lettere che componevano i suoi tria nomina di cittadino romano.
Non tutti però ricevevano questo sontuoso trattamento com'è descritto nella cena di Trimalcione. Era usanza piuttosto diffusa che il padrone di casa per darsi importanza invitasse un gran numero di convitati ma che riservasse a sé e a scelti commensali il cibo e i vini migliori mentre agli altri somministrava un vino di pessima qualità, pane raffermo, cavoli lessati, gli avanzi di una gallina coriacea e per frutta una mela mezza marcia «come quelle che rosicchiano le scimmie ammaestrate che fanno gli esercizi sulle mura».

Il grande scialacquatore: Marco Gavio Apicio

Nell'età che seguì alla morigeratezza augustea, quando i romani vollero gustare i piaceri della vita che offrivano loro le grandi risorse dell'Impero, divenne noto un eccezionale buongustaio Marco Gavio Apicio menzionato sia da Seneca che da Plinio. Su questo personaggio si andò accumulando un'esuberante aneddotica. Si vuole, ad esempio, che nutrisse le murene con la carne degli schiavi, e che si sia suicidato dopo aver dilapidato in banchetti un immenso patrimonio. In base a testimonianze indirette, comunque, si può affermare con certezza che Marco Gavio nacque intorno al 25 a.C. e morì verso la fine del regno di Tiberio.
Apicio nelle sue fastose cene offriva ai suoi ospiti cibi elaborati, come pappagallo arrosto, utero di scrofa ripieno o ghiri farciti, di cui egli stesso indicava le ricette che intorno al 230 d.C. un cuoco di nome Celio compilò in una raccolta in dieci libri, il De re coquinaria (L'arte culinaria), attribuendola ad Apicio. Si tratta di appunti frettolosi e disordinati che costituiscono, tuttavia, la principale fonte superstite sulla cucina nell'antica Roma.
A questo stravagante personaggio che Plinio il Vecchio definisce «il più grande tra tutti gli scialacquatori» si dovrebbe l'invenzione di qualcosa di simile al foie gras che egli otteneva ingozzando le oche di fichi in modo da far loro ingrossare il fegato da cui il termine ficatum che passò poi a designare il fegato.
Una ricetta particolare di Apicio era quella di cuocere diverse volte i cibi: ad esempio la carne aveva una prima cottura in acqua, poi nel latte, nell'olio e infine in una salsa speziata. Lo scopo, oltre quello di insaporire le vivande era quello di seguire le indicazioni di Galeno secondo il quale «i cibi ben cucinati stimolano l'appetito e risparmiano molto lavoro allo stomaco» anche se le cotture prolungate e diverse, noi sappiamo, fanno perdere molti degli elementi nutritivi.
Apicio venne aspramente criticato da Seneca che lo addita come «un cattivo esempio» per la gioventù e da Marziale che ne parla dicendo: «avevi profuso, Apicio, per la tua golosità sessanta milioni di sesterzi e ti rimaneva ancora un bel margine di dieci milioni. Ma tu hai rifiutato di sopportare quella che per te era fame e sete e hai bevuto, come ultima bevanda, il veleno: non avevi mai agito, Apicio, più golosamente.»

Nel banchetto: vita e morte

La presenza di tanti cibi che esaltavano i piaceri della vita, ma anche del vino dai cui eccessi spesso deriva una tristezza etilica, portava con sé anche una riflessione sulla fine della vita e della morte incombente che costituiva spesso un tema rappresentato nei mosaici dei triclini nella forma di scheletri che portano anfore come quelli effigiati nel vasellame d'argento ritrovato a Boscoreale, in particolare su due coppe dove sono raffigurati scheletri di scrittori e filosofi greci contornate da scritte che proclamano sentenze come «Godi, finché sei in vita, il domani è incerto», «La vita è un teatro», «Il piacere è il bene supremo».
Si spiega così come anche Trimalcione, al termine della sua memorabile cena si presenti ai suoi invitati con uno scheletro d'argento, mentre legge agli ospiti stralunati, in una sorta di cerimonia funebre, tra i pianti dei servi, il suo testamento.

La sobrietà della piccola borghesia e della plebe

Si sbaglierebbe a pensare che gli eccessi descritti a proposito dei banchetti imbanditi dai crapuloni come Trimalcione dove
(LA)
«Vomunt ut edant, edunt ut vomant»
(IT)
«Vomitano per poter mangiare e mangiano per poter vomitare»
caratterizzassero le cene di tutti i romani di elevata condizione. Non era così per gli intellettuali come Marziale, Giovenale lo stesso Plinio il Giovane che prepara per la cena dei suoi ospiti una lattuga, tre lumache, due uova per ciascun invitato, olive, cipolle, zucche, un pasticcio di farro e vino miscelato con miele raffreddato nella neve. La stessa sobrietà caratterizza i conviti dei plebei che ad esempio nello statuto del collegio funerario, istituito a Lanuvio nel 133 d.C. per sopperire in comune alle spese dei funerali dei loro membri, stabiliscono che nelle previste sei cene sociali annuali si imbandirà un pane di due assi, quattro sardine e un'anfora di vino caldo e prevedono multe per chi non sarà educato a tavola ingiuriando un collega o facendo chiasso.

La frugalità cristiana

Fin dal primo secolo i cristiani di Roma avevano trasformato le cenae in agape dove assumevano «lodando Dio, il loro cibo con gioia e semplicità di cuore». Scriveva Tertulliano nel II secolo: «non ci si sdraia per mangiare che dopo una preghiera a Dio. Si mangia secondo la propria fame, si beve come conviene a gente pudica, ci si sazia come gente che non dimentica che anche la notte bisogna adorare Dio. Si discorre come chi sa che Dio ascolta».
Con il riconoscimento del Cristianesimo nel 313 come religione tollerata si diffonde l'uso di onorare con banchetti funebri (refrigeria) il genetliaco dei martiri: si imbandisce quindi un frugale pasto in comune o si fanno libagioni che durano tutto il giorno in un clima festoso che venne comunque condannato per l'«abundantia epularum et ebrietate».
L'ammonimento di Sant'Ambrogio: «chi indulge in cibi e bevande non crede nell'aldilà» è ormai il segno di una politica moralizzatrice delle autorità religiose tendenti a eliminare ogni eccesso della carnalità anche per quanto riguarda l'alimentazione.

 
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