E chi fa brillare i piatti?

0 commenti

 


Il lavoro del lavapiatti è considerato umile. Ma nel mondo della ristorazione il cliente è al centro e il dietro le quinte è tutto. «Se non ci fossero, crollerebbe il ristorante».

Da pochi giorni mi occupo del lavaggio nella Trattoria A Casa Nostra a Milano, una trattoria di quartiere molto amata.

Il mio posto di lavoro è nella minuscola cucina: è un lavandino e una lavastoviglie. Sei giorni su sette, dalle 11 alle 15 e poi di nuovo dalle 18.30 alle 23.30, sono il destinatario di tutte le stoviglie, tutte le pentole roventi, tutte le posate, tutti i coltelli sporcati dai clienti e dall'aiuto cuoco Elia.

«Prima ho fatto molte cose in molti luoghi, ma questo lavoro è mille volte meglio: è semplice, ha orari regolari, i miei colleghi sono tra loro come una seconda famiglia. In passato avevo più responsabilità, e molti più imprevisti».

«È un lavoro che consiglierei a chiunque, anche a mio figlio se ne avessi uno. Bisogna essere ordinati, veloci e precisi. Perché dovrebbe essere considerato un lavoro umile?».
Mi rendo conto di entrare perfettamente nel cliché: il gesto del pulire è associato da sempre alle attività più popolari, e il lavapiatti è una figura invisibile, così come, del resto, lo erano i cuochi fino a vent’anni fa (e ancora, in parte, i camerieri). «Infatti non mi piace dire “lavapiatti”, preferisco la locuzione “interno cucina”.

L’idea di “seconda famiglia” torna, nei racconti di tutta la gente di cucina che ho conosciuto, e non potrebbe essere diversamente: si lavora stretti, il rapporto è fisico.

In passato per lavoro ho soggiornato in alcuni dei più famosi alberghi del mondo, dove ho potuto vedere con i miei occhi che ancora si segue la suddivisione militaresca dei ruoli codificati da Auguste Escoffier, quando sfamava i soldati al quartier generale dell’Armata del Reno durante la guerra franco-prussiana. In quello schema fatto di maître de salle, maître de rang, chef de rang, demi-chef de rang, commis de rang, commis debarasseur, il lavapiatti si chiama plonge, letteralmente “tuffo”, e il suo è un comparto essenziale.

Può capitare che diverse parti della struttura siano contemporaneamente occupate dalle centinaia di ospiti della pasqua ebraica, da un meeting di un fondo finanziario e dal matrimonio di una rockstar. I lavapiatti, come capita spesso in questi colossi, sono esternalizzati, cioè non sono dipendenti dell’azienda, bensì di un fornitore.
«Sono quasi tutti ragazzi stranieri: marocchini, rumeni, albanesi, pachistani. Giovani, con un forte turnover: la paga non è alta, spesso se trovano di meglio cambiano lavoro». Del resto qui si parla di numeri molto variabili, che possono diventare importanti.

«Posso dire senza tema di smentita che nei miei viaggi ho incontrato persone incredibili», «immigrati che magari nel proprio Paese erano medici, ingegneri. Costretti a ricominciare, ma lo fanno con orgoglio e determinazione».
«Troppo spesso si pensa al lavapiatti in modo denigratorio. Invece se quel comparto non funziona crolla tutto il ristorante. E mi piace che le persone che lavorano con me considerino il lavapiatti fondamentale: così capiscono che tutti i ruoli meritano rispetto».

Ecco, la carriera: in cucina c’è mobilità verticale? Funziona l’ascensore sociale?

In soldoni: si può partire da lavapiatti e finire chef o patron?

Per rispondere a questa domanda basta un nome, Pino Cuttaia. Uno dei più grandi cuochi italiani - due stelle Michelin a Licata, in Sicilia - ha cominciato proprio così, tra lavandino e detersivo.
Forse il più noto è Anthony Bourdain, come scrive nel suo Kitchen Confidential. Anche lo stellato Eric Räty ha cominciato alla plonge. E Kurt Cobain, prima dei Nirvana, lavava i piatti al ristorante Lamplighter.



Gli americani mangiano male?

0 commenti

Definirei quegli oggetti di sfida alimentare di grandi dimensioni "Abomini del cibo".

Sto parlando di cose come questa:



Mangia questo grosso mucchio di merda in meno di 30 minuti e prendi una maglietta e la tua foto sul muro!

Perchè dovrei farlo? Quell'hamburger ha un aspetto terribile, addirittura un abominio.

Gli abomini alimentari non si presentano solo sotto forma di hamburger, possono essere:


Burrito!

Se mangi quella cosa ricevi una carta regalo da $ 100. Che può essere usato per comprare più burritos!

Come se.



Naturalmente, ci sono anche le sfide della pizza. Quella cosa sembra piuttosto interessante, ma sedersi a un tavolo e cercare di mangiarne il più possibile è oltre il ridicolo.

Sono sempre sbalordito dai commenti che le persone fanno quando prendono parte a una di queste sfide. Strappano l'oggetto e lo mangiano pezzo per pezzo e poi si esprimono su quanto sia delizioso e sorprendente il cibo. Hanno appena fatto a pezzi l'hamburger e ne hanno infilato ogni parte in bocca, ma è stato comunque fantastico. Tipo, quel panino sul fondo era delizioso, giusto?

Penso che il cibo dovrebbe essere di dimensioni normali. Se vuoi fare una sfida mangiando cose, mangiane due o tre, non un abominio.


Come fanno a preparare la bistecca così velocemente nei ristoranti?

0 commenti

 


La velocità di cottura della bistecca nei ristoranti è data da diversi fattori come il grado di cottura richiesto dal cliente, il tipo di pezzatura di carne, l'apparecchiatura usata e la bravura dello chef.

Nei ristoranti le bistecche e i grossi tagli di carne vengono cotti in modo differente rispetto a come si fa in casa. Innanzitutto spesso vengono tenuti fuori dal frigo per due ore circa (ma non è una pratica molto igienica per via dei batteri) di modo tale che la carne a temperatura ambiente impieghi meno tempo a cuocere. Un altro accorgimento è la tecnica del Reverse Searing. Dopo aver tolto l'umidità dalla carne con della carta assorbente, si pone la bistecca in una bacinella per due ore dentro al forno a convezione vapore professionale a 40°C/50°C. In questo modo si riducono i successivi tempi di cottura.

Successivamente si posa la carne sulla griglia, preriscaldata almeno 30 minuti prima e si cuoce in linea di massima ogni lato per due minuti, giusto il tempo che si formino le righe. Gli chef utilizzano in modo orizzontale la sonda per verificare la temperatura, a seconda del grado di cottura richiesta dal cliente: circa 55° C cottura al sangue (anche sotto i 50°C), 62° C cottura media e 78°C cottura completa. Poi la carne viene di nuovo adagiata su carta assorbente. Il tempo di cottura dipende anche dal taglio della carne e dalla parte dell'animale. A rallentare il processo potrebbe esserci la presenza di più bistecche sulla griglia. La carne ha bisogno di spazio tutto intorno per poter cuocere bene.

Se si punta nel menu a offrire delle bistecche, occorre avere in cucina una griglia professionale a pietra lavica o normale a doppio modulo (per cottura simultanea di carne in caso di comande contemporanee) o il fry top. Le padelle, le griglie in ghisa o le piastre rigate da appoggiare sopra il fuoco delle cucine non sono adatte perché la cottura non è uniforme.

La griglia a pietra lavica o normale arriva in pochissimi minuti a 200/300°C, non è necessario tenerla accesa in attesa di comande dalla sala. Si possono utilizzare le griglie senza pietra lavica, più igieniche e pratiche da pulire

Il fry top in acciaio dolce a differenza della griglia che cuoce per irraggiamento, cuoce per contatto. E' un apparecchiatura più versatile in cucina, su cui i ristoratori investono di più. SI usa per cotture multiple anche per verdure rigate come le zucchine. Rispetto alla griglia produce meno fumi e necessita di minor aspirazione.

Entrambi i tipi di apparecchiature hanno elevati kW di potenza totale installata, fattore che li rende potenti e veloci nelle funzioni.



Cosa aveva di particolare il ristorante più strano in cui sono stato?

0 commenti

 


Il posto non era strano, era un ristorante italiano in Canada. Aveva le "Linguine mango, maiale, panna e anacardi".

Alcune persone del nostro gruppo credevano che fosse una tipica ricetta di una tipica nonna in una tipica casa di campagna italiana dove mangi bene anche se metti insieme tonno e sassi.

Perché la regola è: italiano = buono, costasse 5 dollari o 50 o un rene. Ne vale la pena, raga, fidatevi di me: in tutto lo Stivale si spaccano di salsa Alfredo, sennò mica mettevano quel nome lì! Ah sì, vero! Basta che il nome suoni italiano e sarà italiano, bisogna tenerlo a mente.

E me le hanno fatte assaggiare, vi dirò, oppure le linguine hanno assaggiato me, non ricordo, ed erano imbarazzanti ma mi hanno portato a riflettere sui limiti e il senso di esportare la cucina italiana all'estero, dal momento che tanti italiani poi frignano di non trovare lo stesso cibo che mangiavano in Italia (sei infatti in Canada, non in Italia) e fanno confronti improponibili su quello che NON trovano qui.

Tipo: è cibo italiano per i gusti canadesi o i canadesi, in un ristorante italiano, dovrebbero mangiare cibo italiano?

Cioè è meglio snaturare i piatti per accomodare il palato locale, creando assurdità e appiccicando comunque l'etichetta "Made in Italy", fatturando a iosa contando sull'ignoranza della gente, o sarebbe meglio educare le persone all'estero - canadesi in questo caso - al cibo italiano più simile al vero, o verosimile, offrendo loro dei piatti come li mangerebbero in Italia? Con tutti i limiti del caso: climatici, gestionali, culturali.

Nel primo caso, quello non è cibo italiano. E non è provincialismo, è chiamare le cose con il proprio nome.

Meglio la seconda, anche se è difficile. Bisogna fare soldi. Nessuno alzerà un sopracciglio con la maggior parte dei piatti italiani perché solo una minoranza ha mangiato in Italia e in quel caso ha provato poche cose. A tanti manca il metro di paragone, qualsiasi cosa associata all'Italia varrà il prezzo del menù e sarà bene, bravo, bis.

Aggiungi che per esportare davvero il cibo italiano bisognerebbe avere ristoranti per ogni regione vista la varietà immensa. Forse per ogni provincia. Diventa materialmente impossibile. Certo che uno sforzo…

A questo punto mi sono ripreso dalla trance temporanea. Era ora di pagare il conto.

Poi mi sono messo a piangere.



La carbonara italiana ha la panna?

0 commenti

Niente panna, l'autentica salsa alla carbonara ha solo quattro ingredienti: guanciale (quando fuori dall'Italia può essere sostituito da pancetta non affumicata), uovo (la mia versione personale è con un uovo intero + un tuorlo a persona, ma ce ne sono diversi ' scuole'), pepe nero, pecorino (preferibilmente tipo romano). La salsa deve essere cremosa non per la crema di latte, ma perché l'uovo è solo in parte "cotto" quando viene mescolato alla pasta.

Spaghetti alla carbonara




Perché la mozzarella in carrozza si chiama cosi?

0 commenti

Trattasi di una mozzarella fresca, sul sedile di una carrozza dell’Ottocento. Autore, Gino de Dominicis. Nell’allestimento di quest’opera, è previsto che gli addetti della mostra rinnovino la mozzarella ogni giorno, poiché la dicitura specifica:

Mozzarella in Carrozza di Gino De Dominicis (1968-1970):
1 mozzarella fresca, possibilmente non di bufala, e comunque ben asciugata
1 carrozza per cavalli, senza cavalli



Non è una burla, ma il processo inverso di una metafora.

Il piatto infatti ha questo nome perché la mozzarella viene adagiata su due fette di pane dorate predisposte in modo simile a una carrozza, come a fare da cocchio al formaggio. Oppure, in una visione ancora più fantasiosa, la mozzarella poggiata sul pane si fonde durante la frittura e, quando viene addentata, fila creando delle “briglie” che guidano le fette (ovvero la carrozza) su cui è adagiata.



Un’ipotesi più storica sostiene invece che nell’ Ottocento il latte, trasportato su carrozze (come gli altri viveri), a causa del movimento continuo durante il tragitto, si cagliasse, arrivando a destinazione come formaggio fresco. Da ciò deriverebbe il nome mozzarella in carrozza.

Un nome comunque molto poetico, per un piatto. De Dominicis dà corpo alla metafora, prendendola alla lettera. Al posto dell’impanatura, mette una carrozza vera e ci appoggia una mozzarella sul sedile all’interno, restituendo così al linguaggio tutta la sua potenza. L’opera d’arte e la magia consistono in questo.

Ma c’è un ulteriore aspetto: per De Dominicis la mozzarella rimane tale pur dimorando nel lussuoso contenitore. L'artista ironizza sugli epigoni di Marcel Duchamp che ancora oggi credono che il contenitore, galleria o museo, abbiano il potere di tramutare in opera d’arte qualunque oggetto lì esposto.


Vale la pena fare la fila da Michele a Napoli per mangiare la pizza ad un solo gusto?

0 commenti

Certo che vale la pena !!! Ho avuto modo di dialogare con i gestori del locale, non troppo, perché li non ti puoi fermare a cincischiare, devi lasciare spazio agli altri che sono lì fuori ad aspettare!

Il mio amico nonché tassista di fiducia che conosco, non posso dire il nome per questione di privacy, ma è buffo, visto il suo lavoro. Ecco, lui mi raccontava che vanno a mangiare la pizza Da Michele altri pizzaioli di Napoli, per carpirne il "segreto" ''Uno di questi lo posso rivelare: al mattino, (molto presto) prima di preparare l'impasto si osserva il tempo, direttamente, anche l'umidità dell'aria farà si che si possa regolare acqua..farina ecc..



 
  • 1437 International food © 2012 | Designed by Rumah Dijual, in collaboration with Web Hosting , Blogger Templates and WP Themes