Nel nostro immaginario, cucinare senza olio equivale a una rinuncia, quasi a un passo indietro nella scala del progresso culinario. Ma è davvero così? E soprattutto: come si preparavano i pasti prima dell’avvento dell’olio da cucina come ingrediente universale?
L’olio, nelle sue molteplici forme — extravergine d’oliva, di semi, di cocco, di avocado — è diventato una presenza imprescindibile nelle cucine moderne. Non solo per insaporire, ma come vettore di calore, base per soffritti, condimento e conservante. Eppure, per millenni, l’uomo ha cucinato senza servirsi di questo prodotto così dato per scontato.
Prima della raffinazione industriale degli oli vegetali, la funzione oggi svolta dall’olio era affidata ai grassi animali. Lo strutto, il burro, il sego e persino il midollo erano utilizzati per trasmettere il calore al cibo, ma anche per conservarlo e insaporirlo. In molte culture tradizionali, la cucina nasceva attorno al fuoco: la carne, soprattutto quella grassa, veniva arrostita su braci vive, senza bisogno di aggiunta di grassi. Anzi, era proprio il grasso contenuto nella carne stessa a sciogliersi, colare, sfrigolare e aromatizzare le cotture.
Questo approccio, oltre a essere estremamente funzionale, aveva anche una logica nutrizionale. I grassi animali erano una fonte preziosa di energia per comunità che vivevano in condizioni climatiche ostili, in assenza di surplus alimentari, e soprattutto impegnate in una quotidianità fisicamente intensa. Non si trattava di opzioni salutistiche o scelte dietetiche, ma di pura sopravvivenza.
Anche le verdure, spesso considerate il regno dell’olio extravergine, venivano cotte direttamente sulla brace o bollite in brodi ricchi. Le erbe selvatiche, le radici e i tuberi venivano arrostiti, seppelliti sotto le ceneri calde, o cotti lentamente in fosse ricoperte di terra e braci. Un metodo diffuso in varie parti del mondo — dalla Polinesia alle Americhe — consisteva nel cuocere i cibi in buche sotterranee, avvolti in foglie e circondati da pietre roventi. Qui, il grasso naturale della carne o quello aggiunto sotto forma di strutto agiva da conduttore termico e insaporitore.
La bollitura rappresentava un altro strumento fondamentale. I nostri antenati non avevano pentole di acciaio inox o cucine a induzione. Utilizzavano contenitori in ceramica o otri di pelle animale, e portavano l’acqua a ebollizione immergendovi pietre arroventate. Anche in questo caso, l’apporto di grasso era fondamentale: piccoli pezzi di carne grassa garantivano apporto calorico e sapore. La zuppa, piatto universale e immortale, nasce proprio da questa esigenza: concentrare in un solo recipiente verdure, legumi, cereali e carne per ottenere un pasto completo.
Infine, la griglia primitiva: una pietra liscia arroventata sul fuoco. Alcune cucine tradizionali — dalla piastra giapponese teppanyaki alla pietra ollare alpina — ne sono ancora testimoni. Per evitare che i cibi si attaccassero, si strofinava la superficie con un pezzo di grasso animale. Anche oggi questa pratica sopravvive nelle cucine più rustiche o tra gli appassionati di cotture "ancestrali".
Tecnicamente, sì. Ma sarebbe sostenibile, sano, efficace? La risposta dipende dal contesto. Nei ristoranti gourmet, si assiste a un revival di tecniche arcaiche: cotture su brace, affumicature, grassi animali “nobili” come il burro chiarificato. In casa, tuttavia, la questione è più complessa. I ritmi moderni, gli strumenti a disposizione e le preferenze dietetiche rendono difficile l’abbandono dell’olio, soprattutto quello vegetale, considerato più "leggero" e salutare rispetto ai grassi animali saturi.
Eppure, una lezione preziosa può essere tratta da questo passato remoto. Non è l’olio in sé il problema delle nostre abitudini alimentari, ma l’eccesso, il disequilibrio e la scarsa consapevolezza con cui scegliamo gli ingredienti. I nostri nonni — e le generazioni precedenti — consumavano grassi in quantità elevate, ma in un contesto alimentare e fisico molto diverso dal nostro. Lavoravano nei campi, percorrevano chilometri a piedi, bruciavano ogni caloria con fatica quotidiana. Noi conduciamo vite sedentarie, ci affidiamo a cibi industriali e ricchi di zuccheri nascosti, e soffriamo di un’abbondanza che si traduce spesso in malattia.
Cucinare senza olio, oggi, non è solo una possibilità ma una via per riscoprire tecniche dimenticate, per ridurre i consumi e per cucinare con maggiore consapevolezza. La cucina ancestrale — quella della brace, delle zuppe cotte lentamente, delle pietre roventi — non è un relitto del passato, ma un serbatoio di intuizioni valide anche in epoca contemporanea. Non si tratta di tornare indietro, ma di attingere a una sapienza antica per guardare al futuro con maggiore equilibrio.
La vera domanda, quindi, non è se possiamo cucinare senza olio. Ma se possiamo imparare a farlo di nuovo.
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