Perché anche basta hamburger grondanti
di cheddar, soprattutto se ci sono panini con le polpette calabresi e
con torcinelli pugliesi.
Mi sono domandato dove poter scovare a
Milano, città la cui permeabilità alle mode la rende nel contempo
affascinante e indisponente, panini sì con carne ma senza hamburger.
L’ultimo decennio, prima a Milano e
poi a pioggia nel resto d’Italia, ha visto il dominio incontrastato
del panino con hamburger. D’importazione americana, declinato in un
miliardo e mezzo di vesti, nobilitato dall’interesse di chef più o
meno in vista, l’hamburger ha trovato terreno fertile in locali
singoli e franchising brulicanti nel rigoglioso e mai sazio pianeta
della ristorazione.
Per smarcarsi dalla facile associazione
con l’insalubre fast food o qualche lurido in camionetta, novelli
ristoratori – spesso alle prime armi nel mondo della cucina – si
sono affrettati a esporci la loro vision e rivoluzionarie filosofie
mandando la polpetta di carne a spasso con la qualunque, da buns con
lievitazioni da piccolo chimico o inconsistenti e colorati – ve li
ricordate quelli neri al carbone durati sì e no 6 mesi? – a
seimila salse homemade che se dici fatto in casa nessuno ti caga,
passando per una cura maniacale e anche un po’ paracula per
l’ingrediente ricercato. Piani e piani di condimenti tenuti in
piedi con uno spiedo e che necessitano un divaricatore mandibolare
per addentarli.
Non userò la parola gourmet perché
l’abuso ne ha svuotato il significato (che poi, in realtà, si
riferisce a una persona dal palato fine, non a piatti d’alto bordo
ma certe parole traslocano facilmente nell’era dei social senza
filtri e senza fact checking).
Di Frankenstein palatali in questi anni
ne ho mangiati a tonnellate, ma anche panini con abbinamenti inusuali
e azzeccati e certi progetti, al di là del necessario marketing,
hanno dimostrato di avere concetti e sostanza alle fondamenta,
dettando il passo.
Ma ora siamo in un’altra fase.
L’hamburger non è morto e gode ancora di ottima salute ma in tempi
in cui si torna alla disperata alla (ri)scoperta delle tradizioni
locali, mi sono domandato dove poter scovare a Milano, città la cui
permeabilità alle mode la rende nel contempo affascinante e
indisponente, panini sì con carne ma senza hamburger. Meglio se di
origine italiana.
Ho fiutato le mie piste da segugio e ho
restretto il campo d’azione attenendomi a poche regole, in netta
contrapposizione all’opulenza barocca dei panini gurmé.
Il concetto è semplice: solo pane e
carne laddove non sia strettamente necessario fare altrimenti. Niente
salse, anche a discapito della fluidità del boccone.
Su quest’ultimo punto gli
integralisti del panino avranno qualcosa da ridire ma con le salse
bisogna stare attenti, nei dosaggi e nei delicati equilibri tra
sapori. Personalmente non ne apprezzo l’abuso e in pochi sanno
gestirle senza che lascino loro prendere la scena uccidendo tutti gli
altri condimenti. Quindi, se posso, le balzo, al massimo irroro le
fauci con una birra in più.
Per questo giro mi affido a San Gastro,
protettore della digestione, so già che dovrò mettere sotto stress
il mio macrobiota. Collego l’hard disk esterno allo stomaco e
m’avvio.
Sono appena le 11.30 e Marisa, la
titolare che mi servirà, sta ancora mettendo in ordine le sedie
attorno ai tre tavoli. Dall’aria spartana, Latteria Carrara è un
alimentari-tavola calda che sopravvive con coraggio da 35 anni in
zona Lambrate/Politecnico.
Nella vetrina che fa da barriera al
banco ci sono salumi e formaggi e una vaschetta con dei fritti.
Intercetto dei medaglioni belli ciccioni, sono le polpette fritte di
carne corazzate con un’invitante panatura dorata.
Chiedo come si componga il panino della
casa: polpette, caprino, lattuga. Avevo detto solo pane e carne ma mi
vedo costretto a violare immediatamente le mie ferree regole:
polpette, fontina, lattuga.
Dopo tre minuti afferro il mio
francesino in cui albergano ben due polpette dal peso specifico non
indifferente. Croccanti all’esterno nonostante il ripasso al
microonde, l’impasto interno, oltre a procurarmi un’ustione di
terzo grado alle gengive tanto è incandescente, è particolare. La
carne macinata è amalgamata a verdure e formaggio magicamente
sciolto, il tutto risulta morbido e viaggia bene senza salse.
Onestamente non me l’aspettavo.
Gli unici nei sono l’abbondanza di
semi di finocchio che bullizzano il resto e la fontina messa a
freddo, non proprio invitante. Magari una piastratina in mezzo al
pane non le avrebbe fatto male.
La Milano che resiste lo fa anche nel
prezzo pop: 4.30 €.
Latteria Carrara, via Alfonso Corti 7
Panino Pugliese con
Torcinelli | FRATELLI TORCINELLI
A sorpresa, nuova apertura del giro
Trippa: Fratelli Torcinelli. Ci sono Pietro Caroli, fondatore della
trattoria, insieme a Vincenzo Critelli e Sebastiano Corno,
rispettivamente responsabile di sala e sous chef di Trippa.
Una saletta con appena 15 posti e
cucina a vista, panini o piatti con 3 protagonisti principali di
stampo squisitamente pugliese (zampina, bombette o torcinelli) e 3
condimenti. C’è anche un panino e una verdura del giorno, in base
al mercato.
Pietro mi spiega che qui si punta sulla
materia prima. La carne è fornita dalla macelleria Santoro di
Cisternino (BR), con cui ha fatto diversi test per giungere alla
ricetta perfetta. Bramo ardentemente i torcinelli, ma prima di
passare all’assaggio, per i meno ferrati, spiegazione doverosa. È
una preparazione diffusa nel centro-sud Italia, in origine nata in
periodo pasquale nelle comunità a forte impronta pastorale, in cui
un trito di frattaglie di agnello (prevalentemente fegato, cuore e
polmone) è insaccato in una retina ricca di grasso (l’omento) e
poi avvolto in budello, il peritoneo, sempre di agnello (o capretto).
La retina, che qui è di maiale, è un elemento fondamentale, infatti
il grasso, sciogliendosi in cottura, da un lato inietta succulenza al
ripieno, dall’altro gocciola sul budello aiutandone la formazione
della crosticina croccante.
Come un archetipo junghiano, il
concetto è più o meno lo stesso ovunque sebbene, in base a
interpretazioni locali (a volte di macelleria in macelleria nella
stessa città) e dimensioni, assume nomi diversi: ammugnatielli o
gnummarieddi nell’Appenino campano-lucano (Murge comprese),
stigliola nell’entroterra siculo (quella classica palermitana è
parente stretta della cordula sarda fatta solo d’intestino di
agnello grigliato), abbuoti nel Lazio, mazzarelle in Abruzzo, marro o
cazzmar in altre zone della Puglia.
Pietro mi consiglia il panino con
torcinelli, carciofi sott’olio e maionese all’aglio. Mi
riprometto di farlo al prossimo giro ma oggi la mia missione è
andare all’essenza, ergo solo pane e torcinelli.
Dopo 6 minuti d’orologio arriva il
mio panino. Pane croccante anche se avrei preferito un colpo di
piastra a rianimarne la fragranza anziché un salto in forno. Senza
il supporto di qualcosa di lubrificante il boccone è un po’ secco,
ma ero già stato messo in guardia, non è demerito del cuoco.
I torcinelli sono sublimi versi di
poesia frattagliesca. L’interno è morbido e armonioso, ha la
consistenza di un patè molto compatto, nessuno tra fegato, cuore e
polmone tiranneggia sebbene la nota ferrosa del primo diriga la
sinfonia. La lieve bruciacchiatura del budello esterno amplifica la
sfumatura amara in coda, che non è affatto disdicevole. Mi lascia un
piacevole retrogusto in bocca che spesso, in quelli mangiati giù –
sono siciliano purosangue – non ho avvertito perché si tende ad
approssimare i tempi di cottura, fondamentali affinché l’interno
non secchi e il fegato non sappia di merda. Perché l’effetto è
quello. Elegante, non c’è che dire.
Nudo e crudo, il panino costa 8 € (ma
voi i carciofi e la maionese fateveli mettere).
Fratelli Torcinelli - Corso di Porta
Vigentina 38
Panino con la Lingua |
BAR QUADRONNO
Il Bar Quadronno è praticamente 200
metri più in su di Fratelli Torcinelli, ormai che ho preso
l’abbrivio, mi fiondo all’interno. È un bar della Milano
storica, anche senza saperlo si nota immediatamente dai pesanti e un
po’ datati interni in legno e per una clientela piuttosto avanti
con l’età, con due vecchine – le sciure milanesi – appostate a
un tavolo con due birre medie giunte a metà bicchiere e che mi
osservano come fossi uno strano animaletto mentre saltello dalla
cassa al bancone.
Anche qui dovrò eludere le regole di
partenza ma prometto che sarà l’ultima volta. Mi tenta molto il
salame di montone, ma mi pare troppo poco patriottico. Ora che ho
messo piede nel mondo delle frattaglie, vado di lingua.
Il “Pippo” si presenta così:
lingua, fontina, pomodoro, salsa bernese. Vorrei limonare duro con la
lingua ma non la trovo e non per mia incapacità ma, come volevasi
dimostrare, la salsa, qui presente in laute cascate, instaura una
vera e propria dittatura. La lingua, che è delicatissima, soccombe
malamente, io la cerco ma lei sfugge, i miei recettori arrapati la
reclamano ma lei, zitta zitta, si dissolve lasciandomi con questa
sbobbetta grassa che mi manganella.
Alla cassa, 7.50 €.
Bar Quadronno, via Quadronno 34
Panino di Cinta Senese
| PORCOBRADO
In principio era un truck. L’idea si
è evoluta e si è trasformata in un piccolo locale in zona Isola. La
carne è di maiale, esemplari di cinta senese allevati allo stato
semi-brado vicino Cortona (AR) in un’azienda agricola da 300 ettari
con 24 stalle. Niente porcherie da allevamenti intensivi, insomma, e
un palato attento lo riconosce anche bendato.
Il cavallo, pardon, il porco di
battaglia è il panino con sola carne sfilacciata, una specie di
pulled pork, prima cotta al barbecue e successivamente affumicata. Il
pane è di farina di verna, un grano antico toscano ed è una specie
di rosetta dalla struttura più robusta, necessaria per non diventare
poltiglia una volta a contatto con la carne, che è di una succulenza
inaudita.
Qui siamo ad alture elevate, v’avverto.
Le parti grasse dalla consistenza burrosa contrastano le lievi
crosticine che rivestono alcuni sfilacci e su cui si è accomodato lo
spirito torbato dell’affumicatura. I succhi colano sul fondo
dell’incarto e quando li riverso sul pane, che è insipido per
bilanciare la sapidità della carne, sembrano una salsa mantecata.
Qui anche solo pensare di aggiungere
qualcosa è uno psicoreato, roba da farabutti, vi scanno se lo fate.
Ho un fremito di pura lussuria, o mi date un fazzoletto o vado a casa
a cambiarmi l’intimo.
Il panino sta a 9 €.
Porcobrado, via Jacopo dal Verme 17
Panino con Polpette al
Sugo | SBUNDA
Superata con agilità la soglia del
quarto panino in due ore e mezzo, San Gastro veglia su di me
dall’alto dei cieli con il suo sguardo benevolo. E proprio dal
Paradiso dei Batteri Intestinali di Ferro mi indica la strada per
raggiungere Sbunda, neonato locale – ha aperto il 21 marzo scorso –
a pura trazione calabrese.
Funziona come una gastronomia. Al banco
refrigerato gli ingredienti con cui condire i panini, da insaccati e
formaggi a condimenti cucinati in un laboratorio. A percorrere la
parete dirimpetto scaffali gremiti di prodotti calabresi, conserve e
sott’oli, tonno e birre. La missione è promuovere la
“calabresità”, mi si passi il neologismo.
E siccome Calabria e Sicilia hanno
diversi punti di contatto gastronomici, percepisco che questi ragazzi
catanzaresi possono regalarmi emozioni. Sul menu affisso in alto
scorgo un panino, il Santa Severina: pane e polpette a sugo.
Lapidario, senza giri di parole. È mio.
Afferro il panino, che altro non è che
una mezza ciabatta. Il pane, l’unica cosa che non proviene dalla
Calabria, è di quello tosto e casereccio, con una crosta fragrante e
la mollica dagli alveoli fitti. Sembra quello che mangio quando torno
a casa dai miei, in Sicilia. Sono stato allevato a panini farciti con
gli avanzi del pranzo, soprattutto la domenica, e queste polpette
rievocano quelle di mia nonna. Non è una paraculata, il sugo ha quel
sapore netto e senza compromessi, a tratti arrogante che solo noi
meridionali riusciamo a comprendere. Il concetto, come concordano i
ragazzi del locale, alla fine è quello della merenda a casa della
nonna quando in palio c’erano le polpette avanzate dal pranzo e ci
si sciarriava (tradotto: si litigava) con fratelli e cugini per la
punta croccante del pane, il cosiddetto “culacchio”, la parte che
ancora oggi preferisco. Sarà per questo che non ho rapporti coi miei
cugini.
L’unica cosa su cui dissento è
l’aver tagliato le polpette per farle stare dentro il pane senza
scavare via la mollica, sicuramente per comodità ma il rischio è
che si disfino a tal punto da diventare ragù.
Assaggio anche la parmigiana di
melanzane e, regà, sembra proprio quella di casa. Provare per
credere.
Il panino è 8 €.
Sbunda, Piazzale Antonio Baiamonti 1
Lampredotto |
MACELLERIA POPOLARE
Controllo un attimo i battiti.
Leggermente accelerati. Nel mio pancino multiscomparto però c’è
ancora un angolo libero, piccolo e indifeso.
Arrivo fino alla Darsena, al mercato
coperto che costeggia il pigro luccichio del sole sul pelo
dell’acqua. Sono quasi le 15.30, mangio da quattro ore e per
infliggermi il colpo di grazia non ho intenzione di ruminare
fiorellini eduli.
Alla Macelleria Popolare di Giuseppe
Zen ci sono stato diverse volte e ho provato praticamente quasi tutto
il menu.
Sono tentato dal morzeddhu, un
amichevole ragù tipico di Catanzaro a base di trippa, cuore, polmone
e milza cotto a fiamma lentissima con pomodoro e peperoncino. Ma
avendolo già mangiato tempo fa ed essendo appena stato idealmente in
Calabria col panino precedente, mi fiondo sul lampredotto.
Appena lo ghermisco, avvolto in un
tovagliolo plastificato necessario a far da argine per l’inevitabile
trasbordo di brodo, il panino emette un odore pungente di trippa.
D’altronde il lampredotto altro non è che un bollito di abomaso,
uno dei quattro stomaci dei ruminanti. Di solito si cuoce con un po’
pomodoro, qui è “in bianco” e con una bella tempesta di pepe
nero. A Firenze m’è capitato di mangiarne di più delicati, qua
c’è un’onda d’urto stradaiola che apprezzo, la carne è molto
morbida e il pane è imbevuto dell’unta brodaglia in cui ha nuotato
la trippa.
L’unica cosa è che il panino è
veramente microscopico, da un lato dopo averne mangiati 5 mi sta
anche bene, ma se arrivassi a stomaco vuoto, me ne servirebbero
almeno tre per placarmi.
Costo dell’operazione, 8 €.
Macelleria Popolare, Mercato della
Darsena - Piazza XIV Maggio
San Gastro dice che può bastare così.
Stende una mano sul mio capo e solleva l’altra indicando la
trinità, il suo sorriso pacifico e quieto dice che la mia prova è
terminata, nonché superata. Lo sfintere regge, l’hard disk ha
ancora qualche cicciabyte disponibile, non devo svuotarlo. Grazie San
Gastro, proteggi la mia digestione, ora e sempre, nei secoli dei
secoli. Amen.
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