In un Paese che ha fatto della cucina un pilastro culturale e identitario, c’è un rito che sta lentamente scomparendo sotto il peso delle agende affollate e del culto dell’efficienza: il pranzo. Una pausa che un tempo scandiva la giornata con naturalezza, oggi si dissolve in un caffè al volo, un panino trangugiato davanti al monitor o, peggio, in un salto completo del pasto. È l’effetto collaterale di una società che considera il tempo dedicato al mangiare un lusso superfluo anziché una necessità fisiologica e mentale.
Eppure, a detta degli esperti, questo atteggiamento è non solo sbagliato, ma anche pericoloso. Saltare il pranzo, o ridurlo a un fugace quarto d’ora consumato in piedi al bancone di un bar, non solo compromette l’equilibrio nutrizionale della giornata, ma contribuisce in modo significativo all’aumento dello stress, al calo della concentrazione e all’adozione di abitudini alimentari scorrette.
«Quando il pranzo viene trascurato, si innesca un effetto domino che finisce per compromettere tutto il ciclo alimentare – spiega la nutrizionista Sara Mastrorilli, docente di alimentazione funzionale all’Università di Bologna –. Si arriva alla cena affamati, stanchi e mentalmente svuotati. A quel punto si cercano cibi veloci, ipercalorici, spesso già pronti e privi di qualità nutrizionale. Il risultato? Si mangia troppo, male e nel momento meno adatto della giornata, con conseguenze negative su sonno, digestione e metabolismo»**.
Il paradosso è evidente: nella società dell’iperconnessione e delle performance, si sacrifica il pranzo per guadagnare tempo che però si perde in efficienza nelle ore successive. «È un falso risparmio – avverte il medico del lavoro Franco Laghi –. I dipendenti che non staccano per mangiare manifestano più facilmente affaticamento cognitivo, irritabilità e difficoltà a mantenere livelli stabili di attenzione. Inoltre, il senso di deprivazione alimentare acuisce la frustrazione, alimentando lo stress cronico. La pausa pranzo è una valvola di decompressione irrinunciabile, tanto per il corpo quanto per la mente».
La questione non riguarda solo le abitudini individuali, ma tocca anche l’organizzazione del lavoro e la struttura stessa delle nostre città. In molte aziende, specialmente nei settori impiegatizi o della logistica, la pausa è ridotta al minimo sindacale, spesso in assenza di mense o spazi adeguati. E nelle aree urbane, i costi dei pranzi fuori casa scoraggiano i lavoratori a sedersi al tavolo. Così si moltiplicano soluzioni “mordi e fuggi” – snack ipercalorici, pasti confezionati, sostituti liquidi – che rispondono più alla velocità che al benessere.
I dati parlano chiaro: secondo una recente indagine dell’Istituto Superiore di Sanità, oltre il 40% degli italiani tra i 25 e i 55 anni consuma un pranzo non strutturato o improvvisato almeno tre volte a settimana, mentre quasi uno su cinque lo salta regolarmente, affidandosi a un caffè e magari a un pacchetto di cracker. Il fenomeno è in crescita soprattutto tra i freelance e i lavoratori del settore terziario.
Ma non è solo una questione di alimentazione. In gioco c’è una certa idea di qualità della vita. Recuperare il senso del pranzo – inteso non solo come assunzione di cibo, ma come momento di socialità, di rallentamento, di ascolto del proprio corpo – significa resistere alla logica che tutto debba essere produttivo, utile, monetizzabile. Significa riaffermare il diritto alla lentezza in una società che ha accelerato al punto da perdersi il gusto del vivere.
Qualcuno sta già reagendo. Alcune aziende virtuose hanno introdotto pause pranzo “strutturate” con menu bilanciati, spazi di coworking dotati di cucine comuni, o momenti di mindful eating guidati. In alcune città, gruppi di cittadini organizzano pranzi collettivi in parchi e piazze, come gesto di resistenza urbana. E cresce il numero di professionisti che, lontano dai cliché del “lavoro è tutto”, riscoprono l’importanza di nutrirsi con cura anche a metà giornata.
Perché alla fine, saltare il pranzo non è segno di forza ma di disattenzione. Verso se stessi, verso il proprio benessere, verso una cultura che ha fatto della tavola il centro della vita. E allora sì, il pranzo serve. Eccome se serve.
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