Sfogliare una raccolta di menù dei
ristoranti milanesi del 1996 è come fare un salto indietro nel
tempo: cosa si mangiava e quanto si spendeva?
Si andava a mangiare fuori molto meno
rispetto a quanto si faccia oggi che è diventata abitudine
consolidata, si usciva solo per le occasioni speciali.
L'altro giorno, passeggiando per
Milano, mi sono imbattuto in un mucchio di libri abbandonati per
strada, tra cui uno, molto vintage, chiamato ‘Menù di Milano
& dintorni - 150 menù completi di portate, prezzi e specialità
così come li trovate al ristorante’.
È diventato un mio mezzo
in un secondo momento che mi ha aperto una finestra
sulla ristorazione milanese del 1996 attraverso scansioni
di menù di alcuni dei ristoranti del tempo.
Allora ho deciso di fare una
riflessione insieme a un esperto di cucina milanese e
giornalista,
e di un ristoratore dell’epoca
ancora in attività, per capire come sono cambiate le cose del
mangiare fuori a Milano dagli anni Novanta a oggi.
Quanto costava uscire a cena a Milano
nel 1996.
Per fare dei calcoli approssimativi mi
sono rivolto a varie questa piattaforme, e ho scoperto, senza
troppe sorprese, che andare al ristorante a Milano nel 1996 costava
di meno in rapporto ad oggi.
Al Boeucc Antico Ristorante (uno
dei più antichi d’Europa, aperto da oltre 300 anni, ndr), gli
“Gnocchetti di patate ai 4 formaggi con fiori di zucca” costavano
15mila lire, l’equivalente di circa 11 euro oggi. Nello stesso
ristorante, gli “Gnocchetti di patate con porri e salmone” nel
2019 costavano 18 euro. Ok, se consideriamo gli ingredienti
utilizzati è giusto che costi un po’ di più, ma comunque il
prezzo è decisamente più alto.
Al defunto ristorante L’Assassino di
via Amedei 8, un risotto alla milanese costava 13mila lire, che oggi
sarebbero circa 9,50 euro.
Sono considerazioni imprecise che non
tengono conto anche del livello del ristorante, fondamentale per
capire le oscillazioni di prezzo. Purtroppo, però, la stragrande
maggioranza dei menù presenti nel libro appartengono ad attività
non più esistenti, il che, ovviamente, mi fa pensare a come il
settore della ristorazione abbia subito delle grandi batoste in
questi, nonostante Milano sia diventata la seconda città con
attività ristorative dopo Roma.
Gianni Bridda, del superstite
ristorante Al Bronzetti, è convinto che i prezzi dei menù
siano cresciuti per una questione di aumento dei costi derivante
dalla liberalizzazione delle licenze dopo il Decreto
Bersani-Visco del 2008.
“La ristorazione è cambiata perché
all’inizio del nuovo millennio hanno liberalizzato le licenze, per
cui hanno iniziato ad aprire troppe attività,” spiega. “I costi
della gestione sono cambiati in maniera per noi sfavorevole: per
esempio il costo del lavoro, che è aumentato drammaticamente. In
più, oggi è difficile che la gente riesca ad andare fuori ogni
domenica sera, anche solo una pizza e birra, cosa invece
assolutamente comune negli anni Novanta”.
La penso un po’ diversamente: “Io
credo che per i prezzi si debba fare un rapporto con gli stipendi di
allora,”
“che anche con la lira erano più
bassi di oggi. In linea di massima direi che ai tempi già spendere
20, 25mila lire (il corrispettivo di 14-18 euro oggi) era considerato
una specie di lusso, quindi noi ragazzi ci accontentavamo di pizza e
Coca-Cola per 10mila lire.”
“Di sicuro si andava a mangiare fuori
molto meno rispetto a quanto si faccia oggi che è diventata
abitudine consolidata, si usciva solo per le occasioni speciali. Le
prime fidanzate, quando le portavo fuori a cena, dovevo risparmiare
per un mese.”
Ma come si mangiava negli anni ‘90 a
Milano? Nei menù milanesi del 1996 sono completamente assenti voci
che facciano intendere un’attenzione alla stagionalità o al
localismo.
“La cultura gastronomica negli ultimi
anni è aumentata a dismisura. Abbiamo detto più cose su sapori e
tecniche dei piatti in questi due decenni che nel secolo precedente.
La ricerca sulla qualità e la provenienza di oggi ce la sognavamo
nel secolo scorso: oggi si parla sempre di stagionalità, non
solo di frutta e verdura ma anche dei pesci, della carne, mentre ai
tempi a nessuno importava. La vera rivoluzione è che oggi il
mangiare bene è sempre più di pertinenza anche delle fasce meno
abbienti, è in corso una democratizzazione del concetto di alta
cucina”.
“Oggi puoi mangiare bene tutto
sommato anche a cifre accessibili, e sarà sempre così, perché
abbiamo capito che la gastronomia è una scienza e come tale procede
per tentativi ed errori e siamo destinati ad una qualità sempre
superiore.”
Perché sono sopravvissuti così pochi
ristoranti di questo libro del 1996?
Ho provato a cercare, uno ad uno,
decine e decine di ristoranti presenti sul libro dei menù: la grande
maggioranza di loro oggi è chiusa. Ho provato a immaginarne i
motivi: da un lato, la diffusione dei fast food iniziata negli anni
Ottanta ha sicuramente messo a dura prova un modello tradizionale di
fruizione della ristorazione; dall’altro, le famose gestioni
famigliari all’italiana hanno ceduto il passo a imprese più
strutturate e franchising, senza contare il fattore anagrafico che ha
portato alla morte o pensionamento dei vecchi proprietari delle
insegne della città.
Oltre alla liberalizzazione delle
licenze, uno dei fattori chiave per comprendere questa strage di
ristoranti sta nella clientela che oggi è molto più mordi-e-fuggi:
“il cliente non è più fidelizzato, è di passaggio,
in genere i ristoranti aprono e
chiudono a un ritmo impensabile per questo motivo.”
“Milano è sempre stato un porto di
mare, i milanesi bravissimi ad accogliere ma anche a cacciare.”
Però, anche la qualità della
vita e l’aria che respiri incidono sulla mortalità dei ristoranti.
Infatti, chi decide di venire a cucinare a Milano ha spesso anche poi
voglia di andarsene. “Ci sono tante cause per la mortalità media
dei ristoranti, che negli ultimi anni è elevata ed è diventata un
dibattito importante della cucina di oggi. Un ristorante oggi chiude
perché chi lo apre sono i cuochi, più dei ristoratori: i cuochi
hanno una visione parziale del ristorante, a volte si dimenticano che
far stare bene una persona è centrale, ancor più del piatto.”
“Poi c’è stato il Covid, che
ha determinato un bagno di sangue nel rapporto aperture/chiusure
2020-2021. Ma ci sono tantissimi altri motivi: i ristoranti stanno
chiudendo perché la vita del ristorante è dura, fatta di
sacrifici e inoltre sono assenti normative della figura giuridica del
cuoco, che è nello stesso quadro dei commessi e dei metalmeccanici.
Negli ultimi vent’anni la cultura gastronomica e la cultura tecnica
è cresciuta enormemente, ma non altrettanto le norme che la regolano
né la cultura aziendale: ad esempio, chi apre un ristorante l’ultima
cosa che fa è un business plan. Quanti ristoratori aprono senza
calcolare bilanci, break even point, il quadro normativo? Tutti
devono fare la loro parte: politici, gli imprenditori, i giovani
cuochi”.
Cosa si mangiava davvero nei ristoranti
di Milano negli anni Novanta
Facendo una raccolta dati dai menù
milanesi della seconda metà degli anni Novanta, è facile
individuare dei trend che caratterizzavano fortemente la cucina di
allora. Trend che è un bene siano scomparsi o, nel migliore dei
casi, relegati a bar-ristoranti di periferia che ancora li esibiscono
con orgoglio.
Come la rucola, protagonista della
cucina anni Ottanta ma presente nel decennio successivo in quasi
tutti i menù. Le pizzerie mettono la “Pizza alla rucola” al
secondo posto dei loro menù, subito dopo la Margherita, i ristoranti
schierano “Gamberetti e rucola” come un piatto jolly per
affermare che sono al corrente con le mode. Anche in versione
risotto.
Onnipresenti anche le varie ‘Tagliata
di manzo con rucola e pomodorini’ e il più chic “Straccetti di
filetto con aceto balsamico e rucola,” dove mi chiedo che tipo di
aceto balsamico venisse usato, prima dell’esordio della glassa alla
gomma di Xantan.
Nella seconda metà degli anni Novanta,
invece, i cibi e gli ingredienti asiatici sembrano impazzare. L’idea
della cucina orientale si impossessa anche di tante cucine
insospettabili, che si vedono obbligate a sperimentare, con
ingredienti che dureranno quanto meteore. Tra questi, il cuore di
palma, (chiamato palmito), l’orrendo surimi e la
polpa di granchio. Li vedo negli abbinamenti più azzardati, come
nell’"Insalatona Esotica” del ristorante Il Cerchio,
che sfoggia il palmito insieme a lattuga, uova, mais, peperoni,
ravanelli e e Emmenthal; e nell’“Insalata Di Quadri’ del
ristorante Fame da Lupi, dove palmito e surimi cercano di legare con
gamberetti, mais e funghi champignon.
Gli anni Novanta erano anni di
sperimentazione, anche con il curry—nella sua scorretta
interpretazione di mix di spezie— che compare in quasi tutti i menu
di Milano, anche in quelli delle trattorie famigliari. “Petto di
pollo al curry” all’Hostaria Pizza Pazza; “Pappardelle fresche
al curry e pancetta” al Prospero di via Luigi Dell’Orto;
“Pennette all’Orientale” con panna, prosciutto e curry
al Bronzetti di via Fratelli Bronzetti. A questo proposito,
ho chiesto al proprietario Gianni, che dal 1993 gestisce questo
ristorante, perché questa voce sia sparita dal menù: “Le pennette
all’orientale non le facciamo più, allora si faceva così per
sfoggiare esotismo. Faceva molto figo. Ora non ce n’è più
bisogno.”
Nel 1996 a Milano non si mangiano
insalate, ma insalatone. È a Milano in pausa pranzo che si
capisce l’importanza di rimanere leggeri, così ogni ristorante
sfoggia una sezione dedicata alle combinazioni più creative in
materia di verdura e proteine. Dovevano ancora scoprire che
un’insalatona può essere anche più calorica di un piatto di
spaghetti al pomodoro.
Al Café L’Atlantique in
viale Umbria 42, si poteva gustare una “Insalata novella con
gamberetti, mais e germogli di soia,” per dirne una. Al Carosello
in via Pietro Custodi, per 14mila lire si mangia una “Insalata Zola
e Noci’ con lattuga, avocadoS (con la s finale),
prosciutto cotto, gorgonzola e noci: a occhio e croce, 1500 Calorie.
Il 1996 sembra essere anche il momento
di gloria della pasta paglia e fieno con prosciutto, panna e piselli,
mentre l’istituzione Peck offre la paglia e fieno al
filo di pomodoro. E, sempre parlando di pasta, si nota
un’inflazione di “pennette” e “sedanini.” La pasta corta è
evidentemente molto amata, anche se gli spaghetti allo scoglio sono
il fiore all’occhiello di molti ristoranti del periodo, insieme
alla Paella spagnola. L’immaginario dell’estate anni Novanta è
estremamente codificata, così come la cultura spagnola che irrompe
sulla scena musicale.
Ogni cinque pagine del libro, più o
meno, figura un ristorante toscano. Non è dato sapere perché, ma
nel 1996 a Milano la cucina toscana è in assoluto la più amata tra
le cucine regionali, seconda solo a quella lombarda.
“Milano ha sempre accolto i
toscani e i pugliesi, cioè i grandi ristoratori del secondo
dopoguerra. Poi, dalla seconda metà degli anni Novanta, ha iniziato
ad accogliere tutte le cucine internazionali, giapponesi e cinesi
soprattutto.”
E sul cibo vegetariano come eravamo
messi? Nel libro dei menù compaiono già tanti piatti vegetariani,
ma raramente con questo appellativo. Eppure, il 1996 è un anno
significativo per la cucina vegetariana in Italia: il Joia di
Pietro Leeman guadagna la sua prima stella Michelin ed è il primo
ristorante vegetariano in Europa a essere insignito del
riconoscimento. Ancora oggi rimane l’unico ristorante stellato del
genere in Italia. E nel libro c’è, ovviamente con piatti esotici.