Cane girarrosto

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Il cane girarrosto è stata una razza canina da lavoro, oggi estinta, caratterizzata da gambe corte e corpo allungato, appositamente selezionata geneticamente ed allevata per correre all'interno di una ruota collegata ad un girarrosto per cuocere la carne.
La razza è menzionata nel catalogo dei cani inglesi del 1576 con il nome di Turnespete (in lingua inglese il girarrosto è detto appunto turnspit).
William Bingley, nelle Memoirs of British Quadrupeds (1809), parla anche di un cane impiegato per aiutare chef e cuochi.
Era noto anche come cane da cucina, cane cuciniere, sottocane o "vernepator cur". Nella classificazione dei cani di Linneo (XVIII secolo) è registrato come Canis vertigus.
La razza è andata perduta, poiché considerata così umile e comune che non è mai stata effettivamente registrata. Alcune fonti considerano il cane girarrosto come una sorta di Glen of Imaal Terrier, altri lo ritengono imparentato con il Corgi gallese.

Utilizzo
Il cane girarrosto è stato allevato per correre su una ruota al fine di girare la carne in modo che potesse cuocersi in modo uniforme. A causa della natura faticosa dell'attività, spesso si alternavano al lavoro un paio di cani.
Secondo John George Wood in The Illustrated Natural History (Mammalia) del 1853:
«Proprio come l'invenzione della giannetta ha abolito l'uso della conocchia e della ruota per filare, che prima erano presenti in ogni ben ordinata casetta inglese, così l'invenzione dei girarrosti automatici ha eliminato l'occupazione del cane girarrosto, e a poco a poco ha quasi annientato la sua stessa esistenza. Qua e là si può vedere un solitario girarrosto, proprio come una ruota per filare o una conocchia può essere vista in alcune case isolate; ma sia il cane che l'attrezzo sono eccezioni alla regola generale, e sono solo degni di nota come curiose reliquie di un tempo passato.»
Shakespeare cita il cane girarrosto nella Commedia degli errori, descrivendo qualcuno ridotto come un cane adatto solo per correre in una ruota.
Questi cani venivano utilizzati anche come scaldapiedi. Un aneddoto racconta che durante la messa in una chiesa di Bath, il vescovo di Gloucester fece un'omelia dicendo "Fu allora che Ezechiele vide la ruota...". Alla menzione della parola "ruota" diversi cani da girarrosto, che erano stati portati in chiesa come scaldapiedi, scapparono via verso la porta.
La regina Vittoria allevò ex cani da girarrosto come animali da compagnia.


Thermopolium

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Il thermopolium era un luogo di ristoro, in uso nell'antica Roma, dove era possibile acquistare cibi pronti per il consumo.
Era costituito da un locale di piccole dimensioni con un bancone nel quale erano incassate grosse anfore di terracotta, atte a contenere le vivande. Aveva probabilmente una funzione simile ai moderni fast food.
Ne sono conservati resti negli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano o a Ostia antica.



Empanada

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Le empanadas sono dei fagottini di pasta ripieni di verdure e/o carne, tipici dell'Argentina e del Cile, delle Filippine e dell'America Latina. Tradizionalmente vengono servite alle jaranas criollas, ovvero alle feste creole. Si tratta non solo di feste ma anche di incontri musicali in accompagnamento alla tradizionale grigliata di carne, l'asado.

Cenni storici
Si ritiene che la ricetta provenga dagli spagnoli che, a loro volta, l'appresero dai popoli arabi del bacino del Mediterraneo, dove l'abitudine di presentare carne finemente tagliata dentro un fagotto di pane è diffusissima e dà luogo a ricette quali il kebab o il gyros pita.
In Argentina, anticamente, le empanadas si servivano per festeggiare il ritorno dei gauchos dopo i lunghi periodi trascorsi nelle pampas a sorvegliare le mandrie.

Caratteristiche
Le empanadas hanno la forma di una mezzaluna e una lunghezza di circa 12-15 cm. Possono essere fritte o cotte nel forno. In quest'ultimo caso si spennellano con uovo sbattuto per lucidarle prima della cottura. In ogni caso si tende a prepararle in anticipo per poi cuocerle e consumarle al momento.
Si preparano con la farina di mais. Il ripieno è, solitamente, di carne di manzo tritata, cipolla e altri ingredienti tipici come olive e uova sode, variamente ingentilite da spezie.
Tuttavia sia la pasta sia soprattutto il ripieno variano a seconda delle regioni, delle disponibilità e dei gusti. Nelle regioni del nordest dell'Argentina le empanadas presentano farina di manioca nell'impasto e patate nel ripieno e talvolta piselli o uvette, specie nelle zone di produzione dell'uva. Nelle zone mitigate dai fiumi, invece è frequente che vengano aggiunte olive.
Sebbene le empanadas nella loro versione più nota siano di carne di manzo, in molte varianti sono di carne di gallina o di pollo oppure di maiale, lepre o gamberi, come in Patagonia.

Varianti
Le varianti dell'empanada si cucinano in molte nazioni di tutti i continenti e ciò ha fatto supporre che si tratti di una tradizione importata sicuramente anche dall'Italia (dove, ad esempio, si conoscono varianti come il calzone che presentano indubbiamente alcune analogie con l'empanada). L'ipotesi di una ricetta importata dall'Italia contrasta con la circostanza che anche i paesi latinoamericani con un'immigrazione italiana scarsa o assente hanno l'empanada come piatto nazionale. Paesi come il Venezuela, l'Ecuador, il Perù e la Colombia hanno infatti questa tradizione gastronomica.


Fiambre

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Il Fiambre è un piatto tipico del Guatemala che viene consumato abitualmente nei giorni di Ognissanti e dei Defunti (1° e 2 novembre), al culmine di un ciclo di festività religiose nelle quali le antiche tradizioni locali danno espressione alla fervente fede cattolica che caratterizza il Guatemala.
La ricetta, che risale all'epoca della colonizzazione spagnola, include, tra gli ingredienti, vari insaccati, verdure, pollo, uova. La natura e l'origine diversa degli ingredienti simboleggia la pluriculturalità del paese centroamericano e più in generale la fusione di molte etnie e culture che caratterizza l'America.


À la carte

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À la carte (talvolta usato letteralmente come "alla carta") è un prestito linguistico francese che significa "secondo il menù". Si riferisce ai "cibi che possono essere ordinati separatamente, anziché come parte di un insieme di vivande".
Con questa frase si indica la modalità di ordinazione più tipica dei ristoranti, la quale prevede che ciascun elemento del menu abbia un proprio prezzo e possa essere ordinato separatamente. Il suo opposto è table d'hôte (in italiano noto come "prezzo fisso"), dove il menù prevede scelte limitate o assenti e il pasto viene servito ad un prezzo prefissato.
L'espressione à la carte viene utilizzata anche metaforicamente, come in politica o nel contesto televisivo. Ad esempio, guardare la televisione à la carte significa accedere ad un servizio in cui si può scegliere fra una gamma di programmi da guardare (come Netflix, Infinity TV, TIMvision, ecc.), anziché guardare un insieme prefissato di programmi.


Tutto il peggio che può capitarti quando lavori nella cucina di un ristorante

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A tutti è capitato di grattugiarsi un dito cucinando a casa, ma quello che succede nelle cucine dei ristoranti è tutta un'altra storia. Quattro cuochi ci hanno raccontato le loro peggiori esperienze con affettatrici, coltelli e olio bollente.
Tutti hanno sentito storie di persone che si sono grattugiate la pelle di un dito o tagliate con la mezzaluna. E se gli incidenti nella cucina di casa non sono rari, è nei ristoranti che succedono le cose peggiori.
Ho lavorato come cuoco per un po' e ho assistito a molti incidenti sanguinosi, ma già all'alberghiero non andava sempre tutto liscio. Alla prima lezione una ragazza ha affermato di saper usare l'affettatrice. Ha detto che le misure di sicurezza erano una noia. Due minuti dopo urlava a squarciagola con le dita mozzate. L'insegnate era rimasto immobile a fissare le dita attaccate alla lama.
Volevo capire quanto spesso succedono cose simili, perciò ho chiesto a quattro cuochi esperti di parlarmi degli incidenti peggiori che gli sono capitati durante la loro carriera.
Sander Lenselink ha fatto lo chef in Olanda per molti anni. Durante una serata di servizio particolarmente impegnativo ha riportato ustioni di primo grado. "Era un venerdì e nel ristorante c'erano circa 80 persone. Avevo fatto gli gnocchi in un'enorme pentola di acqua bollente, ma quando sono andato a scolarli la pentola mi è scivolata nel lavandino. L'ondata di acqua bollente mi è arrivata dritta in faccia. Ricordo di aver visto tutto in slow motion." Poiché il ristorante era pieno, Sander ha continuato a lavorare come se niente fosse finché un collega non si è accorto che qualcosa non andava. "A quanto pare, avevo il viso pieno di bolle. Abbiamo pulito le ferite e sono andato al pronto soccorso, dove ho scoperto di avere ustioni di primo e secondo grado. Sono uscito dall'ospedale tutto bendato, sembravo Ralph Fiennes ne Il paziente inglese. Non ho potuto lavorare per una settimana e mezzo, ma per fortuna non ho cicatrici."
Joost Brouwer ha lavorato per anni nei ristoranti prima di aprire il suo catering. I giorni che ricorda meglio sono quelli in cui qualcosa è andato molto storto. "In uno dei ristoranti in cui ho lavorato cucinavamo in fretta e improvvisavamo molto—è così ovunque, d'altronde—e spesso ci cadeva qualcosa. Una sera mentre spazzavo il pavimento della cucina sono scivolato su una cozza. Mi è partita una gamba in avanti e ho sbattuto il ginocchio su un'isola. Sono finito con una peritendite rotulea, un'infiammazione del ginocchio molto fastidiosa. Soprattutto se devi stare in piedi tutto il giorno."
Bruciature e scivolate sono in cima alla lista degli incidenti più comuni, ma al primo posto ci sono sicuramente le dita tagliate. Non credo esista un cuoco che non si è mai tagliato. José Brouwer lo sa bene. "Avuto la brutta abitudine di pulirmi il coltello nel grembiule. Un giorno mi sono dimenticato di mettere il grembiule e la lama mi ha trapassato i pantaloni e mi ha tagliato la gamba. Da quel giorno non ho più pulito il coltello in quel modo."

Jordy Pottgens è un ex cuoco e manager di un ristorante e ha avuto una brutta esperienza con il riciclaggio del vetro. "Avevamo un nuovo macchinario che rompeva le cose di vetro in piccoli cocci. Si azionava a mano, c'era una barra da schiacciare e un coperchio per impedire che i pezzi di vetro andassero ovunque. Ho premuto la barra, ma qualcosa è andato storto e il coperchio si è aperto. La mia mano è rimasta incastrata tra il coperchio e la maniglia, amputandomi la punta dell'anulare e parte del medio. Per fortuna siamo stati i primi a usare quella macchina e abbiamo subito denunciato i fatti. Sono in corso diverse indagini da parte dell'assicurazione e delle associazioni dei consumatori. Ma comunque, ormai le mie dita sono andate."

Samuel Levie è un cuoco, ma ora lavora nelle pubbliche relazioni nel settore alimentare. Durante i suoi anni in cucina però ha assistito a molte situazioni finite male. "Quando avevo 18 anni al mio chef piaceva bere. Una sera stava preparando il caramello e io stavo affettando qualcosa. A un certo punto mi ha allungato un cucchiaino di caramello. In cucina la cosa più importante è assaggiare, perciò l'ho assaggiato. Ma era ancora bollente, e il caramello è anche molto appiccicoso. Mi sono ustionato dalle gengive al naso. Ho avuto ustioni per tre settimane, oltre a un labbro superiore pieno di pus al gusto di caramello."
Poi si è spostato in un ristorante il cui chef voleva mettersi alla prova, aggiungendo apposta fattori di rischio al lavoro in cucina. "Diceva sempre di essere in grado di togliere le crocchette dalla friggitrice a mani nude. Il suo ultimo giorno ha voluto darci prova di questa sua abilità e ha messo le mani nell'olio bollente. Voglio dire, non credo ci sia qualcuno che può farlo senza farsi male. Infatti le sue mani non erano bellissime da vedere, e dopo il servizio è andato dritto a casa—non si è nemmeno fermato per un drink d'addio."

Lo chef Peter Ian ci ha raccontato di un cuoco che lavorava per lui e si è tagliato un centimetro di dito. "Il ragazzo è venuto da me con il dito mozzato dicendo di aver bisogno di un medico perché si era tagliato con l'affettatrice. E sì, nei paraggi dell'affettatrice c'era un pezzo di dito. La settimana dopo ho lavorato tutti i giorni senza pause, perché qualcuno doveva pur fare le sue ore. Quando è tornato aveva il pollice quadrato." Molti quando perdono un pezzo di dito lo portano all'ospedale in un tupperware pieno di ghiaccio, nella speranza che i dottori glielo riattacchino.
Vorrei chiudere con qualche consiglio scontato, ma a quanto pare non così tanto: state attenti e non giocate con l'olio bollente, i coltelli affilati e le affettatrici. Non finisce mai bene.


Lo stellato Scabin non paga l'affitto al Castello di Rivoli, ma nessuno lo sfratta

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Nel Paese che taglia i finanziamenti alla cultura ci sono regioni che non riscuotono gli affitti di chi, con i sui ristoranti, alloggia nei più bei musei del mondo.

Per il magazine Usa Food&Wine il Combal Zero di Scabin è uno dei dieci ristoranti al mondo in cui «mangiare ti cambia la vita». Un gran bel riconoscimento, peccato che il ristorante deve al Castello (patrimonio dell'umanità per l'Unesco) che lo ospita e lo rende così ambito, l'affitto, ovvero 230 mila euro. E' possibile che il grande chef non trovi i soldi per saldare il debito, se una cena, a persona, costa 200 euro? Su [url"La Stampa"]http://www.lastampa.it/2015/10/21/italia/cronache/scabin-moroso-stellato-contenzioso-di-mila-euro-con-il-castello-di-rivoli-oOXjYkA0aTpFw0C0cUCihL/pagina.html[/url] a firma di Emanuela Minucci (leggi sotto) viene raccontata questa storia assurda, abmbientata in un Paese come l'Italia in cui la cultura viene sfruttata dai potenti, invece che essere valorizzata per il bene dei cittadini. Forse sarebbe meglio fermare i tagli alla cultura ma farsi pagare gli affitti. Cosa ne dite?
«Da Scabin si mangia a ufo». Ecco il titolo dell’interpellanza che il Movimento 5 Stelle ha presentato ieri in municipio a Torino. Essì magari, penserà qualcuno, essendo che l’inventore del cyber-egg è certamente fra i più talentuosi del pianeta e una cena al suo Combal Zero (menu Up&Down) costa 200 euro a testa. Peccato che i grillini si riferissero a un altro servizio a secco di pagamenti, vale a dire l’affitto che il ristorante doppio stellato non paga ormai da anni al Castello di Rivoli ex residenza sabauda dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. «Lo chef deve al Museo circa 230 mila euro - ha dichiarato ieri l’assessore regionale alla Cultura e al Turismo Antonella Parigi - e visto che questo contenzioso risale a parecchi anni fa non c’è dubbio che vada sanato con urgenza: non si tratta di una residenza qualunque, sono soldi pubblici, della questione si stanno occupando i legali del castello che cercheranno di arrivare a una soluzione bonaria».

Sfratto escluso
Che la Regione e il Castello di Rivoli non abbiano alcuna intenzione di sfrattare il «Combal Zero» uno dei dieci ristoranti al mondo in cui secondo il magazine statunitense «Food&Wine», «mangiare ti cambia la vita». «Il ristorante ci dà un evidente prestigio - ha spiegato ieri la presidente dell’Associazione culturale Castello di Rivoli Daniela Fornero - ma è altrettanto chiaro che non ci possiamo permettere, di fronte a un simile debito, di non pretenderne una ridefinizione: magari attraverso una rateazione o una riduzione ex post che si deve al fatto che il ristorante non è più aperto a pranzo come all’inizio. Alla fine però quell’ammanco dovrà tornare nelle casse del Castello». E ora che la consigliera grillina Chiara Appendino ha messo nero su bianco il «caso Scabin» spiegando che «gli utili derivanti da tale contratto di locazione contribuiscono alle spese del museo di arte contemporanea e dunque alla fruizione della cultura» la questione è diventata politica.

I tagli alla cultura
In un momento in cui gli enti locali - a Torino come in mezza Italia - riducono i fondi destinati alla cultura per salvare welfare e servizi, la questione che un ristorante di lusso finisca per fare utili alle spalle della cultura non passerebbe inosservata. Il contratto siglato da Scabin con il Castello di Rivoli nel 2002 era di 55 mila euro l’anno. Ma, in virtù del fatto che il ristorante non è più aperto a pranzo lo chef ha chiesto al Museo di rivedere il contratto. Secondo i padroni di casa però l’ha fatto a suo modo: smettendo di pagare l’affitto. E aggiungendo che gli infiniti lavori di ristrutturazione del Castello hanno costretto per troppo tempo i suoi clienti a entrare dal retro. Insomma, la guerra del canone si compone di mille aspetti. Ma ora prima che la questione possa suscitare l’interesse della Corte dei Conti, il padrone di casa, che è pubblico, ha deciso di mettere lo chef di fronte alle sue responsabilità.

«Io resto al castello»
Ieri l’inventore dell’ostrica virtuale e del tataki di melanzane era in Irlanda e ha reagito così alla domanda sulla sua morosità: «Quando non hanno nulla da fare a Torino si inventano delle storie su Scabin. Se pago o no l’affitto? Parlate con la dottoressa Formento io parlo di cucina». L’ultima domanda riguarda le voci che lo danno per desideroso di cercare una sede alternativa magari a Milano. Ma lì Scabin è tranchant: «Io mi trovo bene al Castello, il ristorante funziona e non ho alcuna intenzione di spostarmi».


 
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