Quello che chiami “cibo cinese” è una costruzione mentale, un miraggio costruito a tavolino per il palato occidentale. Non esiste un unico “cibo cinese” come esiste la pizza o la pasta: esistono decine di cucine regionali, ognuna con i suoi ingredienti, le sue tecniche e le sue logiche di sopravvivenza. La versione che trovi nei ristoranti economici italiani, francesi o americani è un prodotto industriale, calibrato chimicamente per creare dipendenza, ma lontanissimo dalla tradizione reale.
Il cuore di questa illusione è il glutammato monosodico (MSG), il sale e lo zucchero: una trinità onnipresente che convince il cervello che stai mangiando qualcosa di ricco e corposo, anche se la materia prima è di qualità discutibile. Il MSG non è un sapore naturale: è un hack dei recettori gustativi. Il sale ti fa ordinare più bevande, lo zucchero nasconde il sapore scadente, e insieme creano una chimera di gusto che ha poco a che fare con la cucina vera.
In Cina, mangiare significa sopravvivere. Non si butta via nulla: zampe di gallina, intestini, polmoni, cervelli, meduse, serpenti, scorpioni e insetti. Non c’è esotismo fine a sé stesso: è pragmatismo spietato. Ogni animale è un pacchetto di proteine da utilizzare integralmente. I tagli “nobili” per noi sono solo una parte del tutto. In alcune zone, nei secoli scorsi e talvolta ancora oggi, si mangiano cani e gatti, non per crudeltà, ma per mancanza di alternative e logica di sopravvivenza.
Accanto alla tradizione si è affiancata una modernità spietata: per sfamare miliardi di persone, la Cina ha trasformato la produzione alimentare in una guerra chimica. Verdure coltivate su terreni contaminati, animali allevati in condizioni infernali e trattati con antibiotici e ormoni, latte e riso adulterati, olio da cucina esausto riciclato, scandali alimentari periodici. Non si tratta di incidenti isolati: sono conseguenze di un sistema costruito sulla quantità e sulla velocità a discapito della qualità.
Le cronache recenti parlano di latte in polvere tagliato con melamina, carne di maiale contaminata, riso con cadmio, batteri fosforescenti e olio riciclato. Stiamo parlando di incidenti mortali, avvelenamenti di massa e contaminazioni invisibili che il consumatore occidentale difficilmente può percepire. Non c’è mistero: esiste un modello economico e produttivo che sacrifica la sicurezza sull’altare del profitto.
Così, quando ordini il “pollo alle mandorle” o i “wonton in salsa agrodolce”, stai consumando un’illusione calibrata. Non stai mangiando la Cina, stai mangiando il frutto di un ingegnoso inganno sensoriale, progettato per assomigliare alla cucina cinese ma capace di sopravvivere alle catene di ristorazione di massa. Il tuo cervello crede alla ricchezza dei sapori, ma la sostanza è povera, omogeneizzata e chimica.
Il messaggio è chiaro: ciò che arriva in Occidente è un prodotto di marketing, non cultura culinaria. La cucina cinese reale è complessa, varia, spesso estrema, e radicata in logiche di necessità, sopravvivenza e territorio.
Quindi, cosa c’è davvero nel cibo cinese?
In quello che mangi tu: illusioni chimiche, glutammato, zucchero e sale a volontà.
In quello che mangiano loro: pragmatismo estremo, ogni parte commestibile di animali e vegetali, tradizioni millenarie di conservazione e sopravvivenza.
In quello che produce l’industria moderna: pericoli e contaminazioni, frutto di un sistema che antepone quantità, velocità e profitto alla sicurezza e alla qualità.
In fondo, mangiare cinese è un atto di mediazione tra la nostra immaginazione, la nostra pigrizia gustativa e la realtà storica e industriale di un paese che ha imparato a nutrirsi con ogni cosa, dalla zampa di gallina al riso contaminato.
Il cibo cinese, così come lo conosciamo, non è cucina: è chimica, psicologia e industria, un mondo a sé stante che il palato occidentale non è mai pronto a comprendere pienamente.



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