Il caciocavallo è un formaggio
stagionato a pasta filata tipico dell'Italia meridionale di forma
tondeggiante, a "sacchetto", prodotto con latte
particolarmente grasso di vacche podoliche, con l'aggiunta di solo
caglio, fermenti lattici e sale. Per la sua conservazione è talvolta
fatto uso di paraffina (sostanza derivata dal petrolio che ha lo
scopo in genere di far scivolare un qualcosa su una superficie).
Queste mucche vengono allevate allo
stato brado, quasi come fossero pecore, pascolando nella macchia
mediterranea fino alle steppe appenniniche in luoghi ricchi di
arbusti e piantine di sottobosco. La presenza di piante aromatiche
nella zona dove si è nutrito l'animale caratterizza le sue note
aromatiche e i suoi profumi, tanto che, a titolo esemplificativo, in
primavera esso assume un caratteristico colore rosato dovuto alle
fragoline di bosco ingerite dalle bestie, e dai camparini.
Tipico di tutte le regioni che
formavano il Regno delle Due Sicilie, ebbe una tale fama, da ispirare
anche modi di dire popolari, come ad esempio "far la fine del
caciocavallo", in analogia alla sua forma strozzata da una corda
nella parte alta. Le varietà più conosciute sono quelle del
caciocavallo Silano, del caciocavallo siciliano, che a sua volta può
essere caciocavallo di Godrano, e del caciocavallo podolico e quello
del Molise con il caciocavallo di Agnone.
Caciocavallo viene menzionato per la
prima volta da Ippocrate nel 500 a.C.
La prima certificazione ufficiale risale al DPR del 30 ottobre
1955.
Etimologia
Il nome di "caciocavallo"
sembra derivare dall'uso di appendere le forme fresche, legate a
coppie, a cavallo di una trave per farle essiccare. Potrebbe anche
derivare dall'uso di lavorare la pasta "a cavalluccio" o
dal marchio di un cavallo che veniva impresso sulle forme di
caciocavallo durante il Regno di Napoli. Un'altra ipotesi
sull'origine della denominazione "caciocavallo" la fa
derivare al periodo in cui veniva effettuata la transumanza
(migrazione stagionale delle greggi, delle mandrie e dei pastori) e
dalla consuetudine dei pastori nomadi di cagliare direttamente nei
campi il latte munto e di appendere le forme di formaggio, in coppie,
a dorso di cavalli per venderli o barattarli nei paesi attraversati.
In uno scritto napoletano dell'Ottocento è riportato che nei mercati
cavalli e asini erano ornati di forme di caciocavallo accoppiate,
anche se esistono diverse interpretazioni possibili sui motivi di
quest'usanza e sulla sua rilevanza etimologica. In realtà, molti
studi condotti partendo dalla constatazione dell'esistenza nei
Balcani, fino dal XV secolo, di un diffusissimo formaggio di vacca
chiamato Kashcaval, induce a pensare che il nome italiano e la
tipologia del formaggio derivino in qualche modo dall'antenato
Balcano/Ottomano. In tutta l'area ottomana e oggi soprattutto nella
zona che va dalla Turchia alla Bulgaria, in Kashcaval è il
formaggio più prodotto e consumato e di qui esportato verso paesi ex
ottomani. Sembrerebbe che il nome abbia relazione con il termine
ebraico Kasher, cioè puro/permesso dalla legge giudaica, ed
infatti in varie zone del mondo ex ottomano si parla di questo
formaggio come del formaggio degli ebrei, che lo avrebbero portato in
Turchia a cavallo del 1500, dopo l'espulsione dal regno di Spagna e
provenendo dalla Mancha, regione che oggi produce il celebre queso
Manchego, peraltro a base di latte di pecora.
L'ingenua ipotesi che il nome italiano di caciocavallo derivi dal
fatto che fosse in qualche modo collegato agli equini, appare in
effetti estremamente debole, tuttavia ha curiosamente trovato
accoglienza ampia, anche in pubblicazioni dotte e in manuali ed
enciclopedie.