Fiambre

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Il Fiambre è un piatto tipico del Guatemala che viene consumato abitualmente nei giorni di Ognissanti e dei Defunti (1° e 2 novembre), al culmine di un ciclo di festività religiose nelle quali le antiche tradizioni locali danno espressione alla fervente fede cattolica che caratterizza il Guatemala.
La ricetta, che risale all'epoca della colonizzazione spagnola, include, tra gli ingredienti, vari insaccati, verdure, pollo, uova. La natura e l'origine diversa degli ingredienti simboleggia la pluriculturalità del paese centroamericano e più in generale la fusione di molte etnie e culture che caratterizza l'America.


À la carte

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À la carte (talvolta usato letteralmente come "alla carta") è un prestito linguistico francese che significa "secondo il menù". Si riferisce ai "cibi che possono essere ordinati separatamente, anziché come parte di un insieme di vivande".
Con questa frase si indica la modalità di ordinazione più tipica dei ristoranti, la quale prevede che ciascun elemento del menu abbia un proprio prezzo e possa essere ordinato separatamente. Il suo opposto è table d'hôte (in italiano noto come "prezzo fisso"), dove il menù prevede scelte limitate o assenti e il pasto viene servito ad un prezzo prefissato.
L'espressione à la carte viene utilizzata anche metaforicamente, come in politica o nel contesto televisivo. Ad esempio, guardare la televisione à la carte significa accedere ad un servizio in cui si può scegliere fra una gamma di programmi da guardare (come Netflix, Infinity TV, TIMvision, ecc.), anziché guardare un insieme prefissato di programmi.


Tutto il peggio che può capitarti quando lavori nella cucina di un ristorante

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A tutti è capitato di grattugiarsi un dito cucinando a casa, ma quello che succede nelle cucine dei ristoranti è tutta un'altra storia. Quattro cuochi ci hanno raccontato le loro peggiori esperienze con affettatrici, coltelli e olio bollente.
Tutti hanno sentito storie di persone che si sono grattugiate la pelle di un dito o tagliate con la mezzaluna. E se gli incidenti nella cucina di casa non sono rari, è nei ristoranti che succedono le cose peggiori.
Ho lavorato come cuoco per un po' e ho assistito a molti incidenti sanguinosi, ma già all'alberghiero non andava sempre tutto liscio. Alla prima lezione una ragazza ha affermato di saper usare l'affettatrice. Ha detto che le misure di sicurezza erano una noia. Due minuti dopo urlava a squarciagola con le dita mozzate. L'insegnate era rimasto immobile a fissare le dita attaccate alla lama.
Volevo capire quanto spesso succedono cose simili, perciò ho chiesto a quattro cuochi esperti di parlarmi degli incidenti peggiori che gli sono capitati durante la loro carriera.
Sander Lenselink ha fatto lo chef in Olanda per molti anni. Durante una serata di servizio particolarmente impegnativo ha riportato ustioni di primo grado. "Era un venerdì e nel ristorante c'erano circa 80 persone. Avevo fatto gli gnocchi in un'enorme pentola di acqua bollente, ma quando sono andato a scolarli la pentola mi è scivolata nel lavandino. L'ondata di acqua bollente mi è arrivata dritta in faccia. Ricordo di aver visto tutto in slow motion." Poiché il ristorante era pieno, Sander ha continuato a lavorare come se niente fosse finché un collega non si è accorto che qualcosa non andava. "A quanto pare, avevo il viso pieno di bolle. Abbiamo pulito le ferite e sono andato al pronto soccorso, dove ho scoperto di avere ustioni di primo e secondo grado. Sono uscito dall'ospedale tutto bendato, sembravo Ralph Fiennes ne Il paziente inglese. Non ho potuto lavorare per una settimana e mezzo, ma per fortuna non ho cicatrici."
Joost Brouwer ha lavorato per anni nei ristoranti prima di aprire il suo catering. I giorni che ricorda meglio sono quelli in cui qualcosa è andato molto storto. "In uno dei ristoranti in cui ho lavorato cucinavamo in fretta e improvvisavamo molto—è così ovunque, d'altronde—e spesso ci cadeva qualcosa. Una sera mentre spazzavo il pavimento della cucina sono scivolato su una cozza. Mi è partita una gamba in avanti e ho sbattuto il ginocchio su un'isola. Sono finito con una peritendite rotulea, un'infiammazione del ginocchio molto fastidiosa. Soprattutto se devi stare in piedi tutto il giorno."
Bruciature e scivolate sono in cima alla lista degli incidenti più comuni, ma al primo posto ci sono sicuramente le dita tagliate. Non credo esista un cuoco che non si è mai tagliato. José Brouwer lo sa bene. "Avuto la brutta abitudine di pulirmi il coltello nel grembiule. Un giorno mi sono dimenticato di mettere il grembiule e la lama mi ha trapassato i pantaloni e mi ha tagliato la gamba. Da quel giorno non ho più pulito il coltello in quel modo."

Jordy Pottgens è un ex cuoco e manager di un ristorante e ha avuto una brutta esperienza con il riciclaggio del vetro. "Avevamo un nuovo macchinario che rompeva le cose di vetro in piccoli cocci. Si azionava a mano, c'era una barra da schiacciare e un coperchio per impedire che i pezzi di vetro andassero ovunque. Ho premuto la barra, ma qualcosa è andato storto e il coperchio si è aperto. La mia mano è rimasta incastrata tra il coperchio e la maniglia, amputandomi la punta dell'anulare e parte del medio. Per fortuna siamo stati i primi a usare quella macchina e abbiamo subito denunciato i fatti. Sono in corso diverse indagini da parte dell'assicurazione e delle associazioni dei consumatori. Ma comunque, ormai le mie dita sono andate."

Samuel Levie è un cuoco, ma ora lavora nelle pubbliche relazioni nel settore alimentare. Durante i suoi anni in cucina però ha assistito a molte situazioni finite male. "Quando avevo 18 anni al mio chef piaceva bere. Una sera stava preparando il caramello e io stavo affettando qualcosa. A un certo punto mi ha allungato un cucchiaino di caramello. In cucina la cosa più importante è assaggiare, perciò l'ho assaggiato. Ma era ancora bollente, e il caramello è anche molto appiccicoso. Mi sono ustionato dalle gengive al naso. Ho avuto ustioni per tre settimane, oltre a un labbro superiore pieno di pus al gusto di caramello."
Poi si è spostato in un ristorante il cui chef voleva mettersi alla prova, aggiungendo apposta fattori di rischio al lavoro in cucina. "Diceva sempre di essere in grado di togliere le crocchette dalla friggitrice a mani nude. Il suo ultimo giorno ha voluto darci prova di questa sua abilità e ha messo le mani nell'olio bollente. Voglio dire, non credo ci sia qualcuno che può farlo senza farsi male. Infatti le sue mani non erano bellissime da vedere, e dopo il servizio è andato dritto a casa—non si è nemmeno fermato per un drink d'addio."

Lo chef Peter Ian ci ha raccontato di un cuoco che lavorava per lui e si è tagliato un centimetro di dito. "Il ragazzo è venuto da me con il dito mozzato dicendo di aver bisogno di un medico perché si era tagliato con l'affettatrice. E sì, nei paraggi dell'affettatrice c'era un pezzo di dito. La settimana dopo ho lavorato tutti i giorni senza pause, perché qualcuno doveva pur fare le sue ore. Quando è tornato aveva il pollice quadrato." Molti quando perdono un pezzo di dito lo portano all'ospedale in un tupperware pieno di ghiaccio, nella speranza che i dottori glielo riattacchino.
Vorrei chiudere con qualche consiglio scontato, ma a quanto pare non così tanto: state attenti e non giocate con l'olio bollente, i coltelli affilati e le affettatrici. Non finisce mai bene.


Lo stellato Scabin non paga l'affitto al Castello di Rivoli, ma nessuno lo sfratta

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Nel Paese che taglia i finanziamenti alla cultura ci sono regioni che non riscuotono gli affitti di chi, con i sui ristoranti, alloggia nei più bei musei del mondo.

Per il magazine Usa Food&Wine il Combal Zero di Scabin è uno dei dieci ristoranti al mondo in cui «mangiare ti cambia la vita». Un gran bel riconoscimento, peccato che il ristorante deve al Castello (patrimonio dell'umanità per l'Unesco) che lo ospita e lo rende così ambito, l'affitto, ovvero 230 mila euro. E' possibile che il grande chef non trovi i soldi per saldare il debito, se una cena, a persona, costa 200 euro? Su [url"La Stampa"]http://www.lastampa.it/2015/10/21/italia/cronache/scabin-moroso-stellato-contenzioso-di-mila-euro-con-il-castello-di-rivoli-oOXjYkA0aTpFw0C0cUCihL/pagina.html[/url] a firma di Emanuela Minucci (leggi sotto) viene raccontata questa storia assurda, abmbientata in un Paese come l'Italia in cui la cultura viene sfruttata dai potenti, invece che essere valorizzata per il bene dei cittadini. Forse sarebbe meglio fermare i tagli alla cultura ma farsi pagare gli affitti. Cosa ne dite?
«Da Scabin si mangia a ufo». Ecco il titolo dell’interpellanza che il Movimento 5 Stelle ha presentato ieri in municipio a Torino. Essì magari, penserà qualcuno, essendo che l’inventore del cyber-egg è certamente fra i più talentuosi del pianeta e una cena al suo Combal Zero (menu Up&Down) costa 200 euro a testa. Peccato che i grillini si riferissero a un altro servizio a secco di pagamenti, vale a dire l’affitto che il ristorante doppio stellato non paga ormai da anni al Castello di Rivoli ex residenza sabauda dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’Umanità. «Lo chef deve al Museo circa 230 mila euro - ha dichiarato ieri l’assessore regionale alla Cultura e al Turismo Antonella Parigi - e visto che questo contenzioso risale a parecchi anni fa non c’è dubbio che vada sanato con urgenza: non si tratta di una residenza qualunque, sono soldi pubblici, della questione si stanno occupando i legali del castello che cercheranno di arrivare a una soluzione bonaria».

Sfratto escluso
Che la Regione e il Castello di Rivoli non abbiano alcuna intenzione di sfrattare il «Combal Zero» uno dei dieci ristoranti al mondo in cui secondo il magazine statunitense «Food&Wine», «mangiare ti cambia la vita». «Il ristorante ci dà un evidente prestigio - ha spiegato ieri la presidente dell’Associazione culturale Castello di Rivoli Daniela Fornero - ma è altrettanto chiaro che non ci possiamo permettere, di fronte a un simile debito, di non pretenderne una ridefinizione: magari attraverso una rateazione o una riduzione ex post che si deve al fatto che il ristorante non è più aperto a pranzo come all’inizio. Alla fine però quell’ammanco dovrà tornare nelle casse del Castello». E ora che la consigliera grillina Chiara Appendino ha messo nero su bianco il «caso Scabin» spiegando che «gli utili derivanti da tale contratto di locazione contribuiscono alle spese del museo di arte contemporanea e dunque alla fruizione della cultura» la questione è diventata politica.

I tagli alla cultura
In un momento in cui gli enti locali - a Torino come in mezza Italia - riducono i fondi destinati alla cultura per salvare welfare e servizi, la questione che un ristorante di lusso finisca per fare utili alle spalle della cultura non passerebbe inosservata. Il contratto siglato da Scabin con il Castello di Rivoli nel 2002 era di 55 mila euro l’anno. Ma, in virtù del fatto che il ristorante non è più aperto a pranzo lo chef ha chiesto al Museo di rivedere il contratto. Secondo i padroni di casa però l’ha fatto a suo modo: smettendo di pagare l’affitto. E aggiungendo che gli infiniti lavori di ristrutturazione del Castello hanno costretto per troppo tempo i suoi clienti a entrare dal retro. Insomma, la guerra del canone si compone di mille aspetti. Ma ora prima che la questione possa suscitare l’interesse della Corte dei Conti, il padrone di casa, che è pubblico, ha deciso di mettere lo chef di fronte alle sue responsabilità.

«Io resto al castello»
Ieri l’inventore dell’ostrica virtuale e del tataki di melanzane era in Irlanda e ha reagito così alla domanda sulla sua morosità: «Quando non hanno nulla da fare a Torino si inventano delle storie su Scabin. Se pago o no l’affitto? Parlate con la dottoressa Formento io parlo di cucina». L’ultima domanda riguarda le voci che lo danno per desideroso di cercare una sede alternativa magari a Milano. Ma lì Scabin è tranchant: «Io mi trovo bene al Castello, il ristorante funziona e non ho alcuna intenzione di spostarmi».


Cosa ho visto facendo l'ispettore sanitario nei ristoranti

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Per anni ho condotto ispezioni sanitarie in molte grande catene della ristorazione, tra infestazioni di scarafaggi e impiegati privi della minima conoscenza della norme igieniche. Questo è quello che ho imparato.
I ristoranti che assumevano quelli come me ci tenevano molto alla loro immagine. Volevano evitare di trasformarsi nei nuovi Jack in the Box—una catena che a metà degli anni Novanta è diventata tristemente famosa per le centinaia di persone che si erano prese l'Escherichia coli mangiando i suoi hamburger.
In qualità di ispettore sanitario nel settore alimentare, ero incaricato di ispezionare i locali di alcune grosse catene della ristorazione. Giravo di ristorante in ristorante per circa 300 giorni all'anno e ispezionavo due o tre locali al giorno. Ogni mattina salivo in macchina, guidavo fino al ristorante e verso le otto-otto e mezza bussavo alla porta sul retro del locale di turno. Per via delle frequenti rapine, molte di quelle porte erano provviste di uno spioncino attraverso in quale l'impiegato che veniva ad aprirmi mi vedeva arrivare con il mio camice bianco, la mia torcia e il mio termometro. Chiunque ci fosse dall'altra parte, esclamava sempre, "Merda." Poi mi apriva e annunciava il mio arrivo a tutti i dipendenti.
Conducevamo le nostre ispezioni attenendoci alla legge federale sulle sofisticazioni alimentari. Facevamo ben di più di quanto non facciano i normali ispettori sanitari. Quelli passeggiano per il ristorante per una quindicina di minuti, trovano qualcosa che non va e poi scappano subito a ispezionare il ristorante successivo, perché hanno troppo lavoro da fare. Io cominciavo dall'inizio e pian piano arrivavo in fondo alla mia lista delle cose da controllare—ognuna della mie visite durava tre o quattro ore.
Controllavo le tubature della cucina, i frigoriferi e ogni angolo del locale. Facevo un sacco di domande al personale: conoscevano le norme di base sulla sicurezza alimentare? Sapevano quali erano le temperature giuste degli alimenti caldi e freddi? La gente non vuole far del male al prossimo. Non vuole cucinare cibo cattivo. Nella maggior parte dei casi, molto semplicemente, non si conoscono le regole.
Una delle cose che mi piaceva più era dirigermi subito verso la postazione dove il personale avrebbe dovuto lavarsi le mani e disegnare una X sul primo tovagliolino di carta all'interno del distributore. Dopo pranzo tornavo a vedere se la X c'era ancora. Spesso era ancora lì, il che significava che nessuno era ancora andato a lavarsi le mani.
Una volta stavo ispezionando il ristorante di una catena che ci aveva affidato anche la disinfestazione dei suoi locali. Ho visto degli scarafaggi e non riuscivo a capire da dove venissero. Conoscevo un ragazzo che per lavoro si occupava di disinfestazione, così l'ho chiamato e gli ho chiesto di venire ad aiutarmi. È arrivato e si è diretto subito verso la macchinetta per i gelati, e mi ha detto, "Mi serve un aspirapolvere, subito." Ha aperto il retro della macchinetta e ne sono uscite valanghe di scarafaggi. Ce n'erano tantissimi, e si mangiavano tra loro. Mi ha spiegato che la macchina per i gelati è il luogo perfetto per gli scarafaggi—è umido, caldo e c'è molto cibo. Ecco perché li si trova sempre lì.
Un'altra volta, stavo ispezionando un altro ristorante e ho chiesto se ci fossero mai stati problemi di infestazioni di insetti. Ero nel sud degli Stati Uniti, dove problemi di questo tipo sono molto comuni. Ho cominciato la mia ispezione dalla parte del ristorante aperta al pubblico, perché in cucina non c'era ancora nessuno e preferivo vedere i dipendenti al lavoro. Sono passato dietro il bancone gattonando sotto la parte che avrebbe dovuto permettere il passaggio. Non funzionava. Ho controllato cosa la bloccasse: era ricoperta di scarafaggi, fino a pochi centimetri dalla mia faccia. Non ho urlato. Non ho fatto niente. Ho solo detto "C'è un problema."
Una volta ho ispezionato un ristorante in cui c'era un odore insopportabile, davvero disgustoso. All'inizio non si capiva da dove venisse, ma poi ci siamo resi conto che proveniva dal grosso tavolo di acciaio inossidabile su cui veniva preparato il cibo. Abbiamo guardato sotto e c'era uno strato di grasso profondo mezzo centimetro. Si muoveva, ed era pieno di mosche e vermi.
Gli incidenti di questo tipo avvenivano durante i controlli anti-infestazione. Ma ce ne sono stati anche altri, causati per lo più da una mancanza di igiene o di educazione. Una volta, mentre ispezionavo una catena di alimentari, c'erano così tante mosche che ho dovuto tenere la bocca chiusa. In un paio di casi, ho visto locali in condizioni igieniche davvero pessime—gli impiegati non sapevano come pulire l'affettatrice, e i frigoriferi per gli affettati non funzionavano adeguatamente.
Un ristorante particolarmente grande aveva una struttura separata adibita alla conservazione degli alimenti. Quando l'ho ispezionata, ho chiesto ai dipendenti se ci fossero problemi di infestazioni. Ho guardato in un cestino, e c'era dentro un topo. I dipendenti mi hanno risposto che no, non avevano mai avuto problemi di quel genere. Io ho indicato il cestino e ho detto, "E allora quello che cos'è?"
Ma ci sono anche altri problemi, meno disgustosi, che sono piuttosto frequenti. Molte lavastoviglie hanno temperature fuori dalla grazia di Dio. La gente le fa partire senza il detersivo o il sapone, perciò i clienti mangiano da piatti sporchi. E se lo scarico non funziona bene, ti tocca far chiudere il ristorante. Mi è capitata una cosa così, in Louisiana. In quel caso, il locale aveva un problema—forse il disoleatore aveva strabordato. Si erano arrangiati e non avevano nessuna intenzione di chiudere. L'unica cosa che ho potuto fare è stata di chiamare la mia azienda e chiedere al mio capo di contattarli personalmente.
In quel lavoro non potevi mai aspettarti un ringraziamento. Fare l'ispettore sanitario è quasi come fare il dentista—tutti devono andarci, ma a nessuno piace. Ma avevo un compito da sbrigare, che agli impiegati piacesse o meno, e non me ne sarei andato senza averlo portato a termine.
Mi ha segnato a vita. Ho smesso di fare quel lavoro da dieci o 12 anni, ma ancora oggi quando entro in un palazzo sono in grado di percepire se ci sono degli scarafaggi. Emanano un odore facilmente riconoscibile.
Da molti ristoranti me ne vado subito, appena dopo che ci sono entrato. Mi capita molto spesso.


Un tour dei peggiori ristoranti di Milano

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Basandoci su esperienze dirette e recensioni online abbiamo deciso di testare alcuni ristoranti milanesi per capire se le prime impressioni sono sempre quelle che contano.
Il mese scorso i medici veterinari dell'Asl hanno fatto irruzione in un ristorante di Mila​no, La Sidreria, e hanno sequestrato cinquanta chili di insetti commestibili che stavano per finire nello stomaco di un sacco di clienti entusiasti all'idea di provare "il cibo del futuro."
Le portate a base di scorpioni e grilli non hanno fatto nemmeno in tempo ad arrivare in tavola che tutto è stato requisito perché gli insetti non erano certificati.
In redazione siamo rimasti particolarmente colpiti dallo zelo dimostrato dall'Asl alla Sidreria: l'impressione era che, facendosi un giro per la città, avrebbero scovato innumerevoli altri posti che servono ai clienti scarafaggi e blatte non certificate. Accidentalmente, però.
La questione è presto degenerata in una specie di FantaDiarrea, e tutti si sono battuti per rivendicare il primato di aver mangiato nei peggiori tuguri di Milano. Con un tono a metà strada fra il disperato e il liberatorio sono stati snocciolati i nomi di un sacco di posti lercissimi, con annesse storie sensazionalistiche riguardanti pizzaioli che si masturbano dietro forni a legna e particolari raccapriccianti sulla composizione chimica della salsa allo yogurt di alcuni take away greci.
La domanda che sorgeva spontanea era come facessero certi posti a rimanere aperti nonostante le norme igieniche da rispettare per mantenere la licenza. Così, ispirato dalle avventure culinarie, ho deciso di compiere un tour di alcuni ristoranti di Milano al fine di testare l'efficacia degli enti preposti al controllo sanitario, e valutare poi se uno scarso livello di igiene è sempre sinonimo di cattiva cucina.
Ho contattato l'Ufficio Annonaria e Commerciale della Polizia Municipale per sapere se esistessero delle liste di ristoranti a rischio per quanto riguarda le norme igieniche, come del resto accade per esempio nel Regno Unito, dove a tutti i servizi è assegnata una nota di igiene, ma mi hanno risposto che queste liste o non esistevano o non erano consultabili.
Per individuare i ristoranti da testare, quindi, mi sono affidato ai risultati del FantaDiarrea, e sfruttando le recensioni di TripAdvisor, ho selezionato i quattro peggiori della lista.
I risultati dovevano essere il più oggettivi possibile, quindi mi serviva l'appoggio di un aiutante. Qualcuno che fosse abbastanza temerario da rischiare il controllo degli sfinteri in nome della ricerca sociologica. Quindi ho optato per il più sacrificabile dei redattori.
Così abbiamo composto un tem​erario think tank, e abbiamo passato due sere girovagando per Milano alla caccia di coliti.
La nostra prima meta è stato il ristorante San Michele, in zona Porta Romana, che si è guadagnato la nostra attenzione perché su Trip Advisor 26 utenti su 29 lo votavano come "Pessimo". Il campo semantico delle recensioni viaggiava tra "diarrea" e "truffa", con contorno di aggettivi come "inqualificabile". Un utente chiosava con "da consigliare al vostro peggior nemico."
San Michele, patrono della polizia, visto da fuori non sembrava così pauroso, ma non appena entrati siamo stati accolti da un mix di pesce rancido, persistente odore di sugo e aromi proveniente da un bidone dell'immondizia pieno. Gnam. Le vetrate erano ricoperte di una condensa solida, fatta di vapore acqueo e periferia in polvere.
I tavoli erano tutti vuoti, quindi ci siamo accomodati e abbiamo iniziato a sfogliare il menù e darci un'occhiata intorno: stelle marine, pesci di terracotta, grappoli d'uva finti e la fotografia di un calesse a Trani. Era tutto piuttosto malinconico, ma non sembrava particolarmente sporco o tremendo. Le tovaglie però erano lise e macchiate e le posate ruvide e rovinate, forgiate dal fuoco di mille lavastoviglie.
Abbiamo deciso di ordinare il primo piatto sul menù, l'Antipasto San Michele, e un cous cous di pesce. Nonostante fossimo gli unici clienti, i nostri piatti sono arrivati dopo 45 minuti.
Il polpo e i totani dell'antipasto, annegati in una pozza d'olio, erano semicrudi. Forse siamo poco aggiornati, ma il collante industriale non dovrebbe far parte della ricetta per le capesante gratinate; alla fine siamo riusciti a staccarle usando il coltello come scalpello.
Al momento di pagare, 29 euro di stoicismo e gastrolesività, abbiamo pensato di fare una visitina al bagno (chissà da dove ci è venuta questa idea) e al posto della carta igienica c'erano tre sedie.
La prima esperienza ci ha lasciato un retrogusto di nostromo carbonchioso in bocca e i villi intestinali in rivolta, ma anche un certo languorino.
Ci siamo quindi messi per strada, destinazione Trattoria Da Lina, vicino alle Colonne di San Lorenzo: una specie di istituzione milanese. Alla proprietaria è dedicata anche una pagina su Facebook. Il collega che ce lo ha segnalato lo ha ironicamente descritto come il posto dove "quelli dell'ASL potrebbero entrare con le tute da palombaro."
Le recensioni su TripAdvisor si dividevano equamente fra un romanticismo entusiasta: "Ogni bel ricordo è un sorriso, ogni incontro surreale è un pezzo di cuore abbandonato da qualche parte. La Lina, come avrebbe detto Wilde, non va capita, va soltanto amata. Diffidenti per le brutte recensioni e le indignazioni eccessive, approdiamo in questo angolo storico di città. La curiosità prevarica sul rischio di una brutta esperienza, e si rivela il modus operandi migliore. Attenzione: non è un ristorante, non pretendete di mangiare bene. Non è neanche un'osteria, è una sala da 'oratorio', un prolungamento del soggiorno di casa, e un pezzo di vita di Lina e Tony. Abbandonate l'occhio critico, chiudete ogni contatto con l'ufficio d'igiene e lasciatevi andare."
E il sentenzioso: "Il peggior ristorante del mondo."
Appena entrati ci sembra di stare in un posto sospeso tra un bar degli anni Sessanta (come se ne avessimo mai visto uno)
E un oratorio.
Il tutto è reso sublime da lanterne cinesi, zucche di halloween e macchie sulle tovaglie. Anche qui siamo gli unici clienti.
La proprietaria, Lina, è una signora anziana con un forte accento milanese. Ci fa sedere e prima che riusciamo ad aprire bocca si mette a raccontarci aneddoti sulla trattoria e su di lei. È difficile seguirla, perché mentre parla si muove in continuazione e sbuca da tutte le parti. La Lina è nostra nonna.
Ci chiede se vogliamo il menù fisso, e noi, con lo stomaco ancora debilitato, decidiamo di smezzarcene uno in due.
Il locale è pieno di cartelli con divieti e avvertimenti.
Mentre scattiamo una foto Lina spiega che è stata obbligata a fissarlo a quella porticina, e la apre. Dall'altra parte del muro c'è un lavandino, e in mezzo una scala ripida che scende in cantina. Se uno si volesse lavare le mani dovrebbe farlo restando fuori dalla porta.
"I ragazzi continuavano ad appoggiarsi, e c'era il pericolo di cadere e farsi male. Fino a poco tempo fa questo era l'unico lavandino, perché il bagno un tempo era fuori, nella corte del palazzo. Adesso però ne ho anche uno interno, bisogna averlo per legge."
Nel bagno costruito per legge c'è un odore persistente di umidità e muffa, l'intonaco delle pareti è scrostato, e accanto alla porta sono appoggiate delle scale e arrugginite. Intanto Lina è andata a prepararci da mangiare, ma l'odore di carne bruciata che arriva dalla cucina non è esattamente invitante. Il menù era composto da "antipasto, risotto e carne in umido."
Ci sentivamo quasi in colpa a non mangiare, quindi ci siamo sforzati di finire, e vergognandoci per il fallimento abbiamo cercato di nascondere la spalla e il salame impilando i piatti. Un tentativo abbastanza stupido, perché poi Lina si sarebbe sicuramente accorta che avevamo nascosto il cibo, ed è una cosa che ci ha tenuti svegli la notte (insieme al mal di pancia).
Lei intanto continuava a portarci cose da mangiare: ci ha messo davanti del riso e un po' di insalata. Il riso è stata la portata che abbiamo preferito in assoluto, anche se non capivamo bene quali fossero gli ingredienti e non sapeva praticamente di niente.
Dopo il riso è arrivato un pezzo di carne in umido, che è toccato a chi era rimasto senza riso. Dopo i primi tre bocconi vi assicuriamo che era praticamente impossibile continuare: non siamo riusciti a capire bene da dove provenisse l'odore di carne bruciata, perché quella che ci ha servito Lina era praticamente cruda. Considerate inoltre che chi l'ha assaggiata è lo stesso che si è fatto una settimana mangiando solo cibo pronto dell'Eurospin: non esattamente un palato fino quindi.
A questo punto la cena ha assunto una strana piega martire, perché Lina continuava a sincerarsi che mangiassimo tutto, e noi non sapevamo più dove nascondere la roba. Fortunatamente dalla porta sono entrati dei ragazzi nel locale per bere qualcosa, e lei si è distratta.
I ragazzi sembravano dei frequentatori abituali, hanno salutato e si sono accomodati spostando le sedie a loro piacimento e mettendo della musica. A questo punto abbiamo capito perché la trattoria è un'istituzione: con qualche spicciolo è possibile raccattare delle legnate epiche, dato che i liquori costano poco, lei ti riempie il bicchiere fino all'orlo e, soprattutto, capita che le passi di mente di avertelo già riempito. Si è creata subito un'atmosfera allegra, ma noi nostro malgrado non abbiamo potuto partecipare: abbiamo approfittato per pagare velocemente il conto e fuggire. Non volevamo si accorgesse che la nostra cena era praticamente tutta nascosta sotto ai piatti.
Comunque è tutto in regola e il nostro collega si sbagliava.
La sera seguente ci siamo apprestati a portare a termine il nostro tour gastronomico con molto meno entusiasmo. "Non è stata una notte semplice" è il mantra che ci ha accompagnato verso Via Ripamonti, dove ci attendeva Il Mago. Il ristorante ci era stato segnalato come "una delle esperienze alimentari più inquietanti della mia vita," e Su Trip Advisor la percentuale di scarso/pessimo era del 76 percento.
Siamo fortunati però: l'atmosfera non esattamente allegra è stemperata dalla presenza della cantante Grazia, una donna sui sessanta che se ne sta in un angolo con una pianola a cantare il repertorio neomelodico italiano a un volume sufficientemente alto da impedire la conversazione. A un certo punto chiama un signore di mezza età con i capelli cotonati, e insieme guidano una filippica contro le canzoni moderne, stonando praticamente ogni nota di quelle vecchie.
Siamo praticamente costretti a ordinare delle linguine ai funghi e gli "spaghetti del Mago" perché l'80 percento degli ingredienti presenti sul menù non è disponibile. Ci viene indicato con un cenno il buffet degli antipasti.
È il ristorante in cui trascorriamo meno tempo: i "funghi" delle linguine somigliano a delle squame bianche gelatinose, e il sapore non ricorda tanto dei funghi ma qualcosa che sa di funghi. In più viene fuori che l'ingrediente segreto degli spaghetti sono i capelli.
Lasciamo i piatti praticamente come sono, paghiamo il conto e saliamo in macchina per provare a mettere fine all'esperimento. Arriviamo dunque all'ultima tappa del nostro viaggio: El Rincón De Lupita.
Si tratta di un ristorante peruviano ecuadoriano in zona Loreto, ed era stato segnalato da più di un ragazzo in redazione per il suo potere lassativo.
Il locale è piccolo, e accanto al bancone ci sono un paio di sacchi neri della spazzatura. Probabilmente siamo capitati nel mezzo di un compleanno, perché è pieno di palloncini e festoni, e tutti ci fissano straniti. Ci sono un mucchio di bambini che strillano, corrono e giocano attorno ai tavoli e cerchiamo di limitare le foto.
Una cameriera gentile e sorridente ci chiede cosa vogliamo mangiare. "Il venerdì è la serata del buffet, ma potete prendere anche altre cose."
Dopo aver dato un'occhiata al buffet scegliamo "altre cose". Ordiniamo un piatto a caso da dividere, perché dopo questi due giorni lo stimolo dell'appetito con tutta probabilità ci è passato per sempre. Mentre aspettiamo diamo un'occhiata al bagno, soltanto per dovere di cronaca, ovviamente, e scopriamo che la spazzatura qui deve essere importante, perché praticamente sta dappertutto.
Finalmente arriva l'ultima portata del nostro esperimento, un piatto di riso e fagioli con delle robe bianche che galleggiano.
E un piatto di carne mista alla brace con del platano fritto.
La carne non sarebbe neanche male, ma facciamo l'errore di consumarla insieme al platano, che ci lascia un sapore oleoso e terribile in bocca (sì lo sappiamo che è il suo sapore normale, infatti questa è una critica generalizzata al platano in sé e per sé).
A un certo punto parte un nuovo karaoke, e anche se quelli che cantano sono di gran lunga più bravi della signora Grazia, noi decidiamo comunque di lasciare il locale.
Mentre guidiamo nel traffico per tornarcene a casa a piangere i nostri villi intestinali sul barattolo della citrosodina, fissiamo la gente che affolla i ristoranti del centro e vorremmo poter essere loro.
In definitiva quello che abbiamo imparato è che, per quanto riguarda i ristoranti di Milano, se il livello di pulizia di un locale vi sembra assimilabile agli standard igienici che vigevano sull'Amistad, state certi che il cibo non tradirà le aspettative.
Probabilmente i medici veterinari dell'Asl non hanno sequestrato gli insetti alla Sidreria perché rischiavano di non essere commestibili, ma perché speravano che lo fossero una volta tanto.


Il Montenegro dice no a McDonald's

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La piccola repubblica adriatica, assieme ad Islanda e Corea, è fra i paesi che non vogliono la catena di fast food perché non appoggia la globalizzazione e poi il cibo è malsano.

Le catene di fast food McDonald's sono diffuse in tutto il mondo ma alcuni paesi, tra cui il Montenegro , hanno deciso di opporsi ad un marchio popolare ed hanno detto “no” al gigante del fast food. Lo racconta la rivista americana “The Daily Meal“. "Potete trovare un McDonald's in alcune località piuttosto remote, come nei pressi del carcere di Guantanamo Bay a Cuba, nel deserto del Negev in Israele, sotto il museo del comunismo di Praga e anche all'interno di un vecchio aereo in Nuova Zelanda. Tuttavia, McDdonald's non è dappertutto, ci sono paesi soprattutto in Africa e in Asia centrale, dove gli "archi dorati" devono ancora aprire un ristorante, si legge oin un articolo intitolato "I dieci paesi che hanno vietato McDonald's.
Alcuni paesi hanno direttamente vietato l’ingresso a questa azienda: il Montenegro, per esempio, dice di essere contrario alla globalizzazione ed ai grandi marchi globali perche’ vuole permettere loro di dominare il mercato. “The Daily Meal”, una rivista specializzata in cibo e bevande, ricorda che poco più di dieci anni di McDonald's era presente nel capitale montenegrina Podgorica durante l'estate, con un piccolo ristorante mobile. "Era un modello di business popolare che stava andando bene, ma il governo non vuole che prosegua. Il Montenegro resiste da lungo tempo ai principali marchi globali che dominano il mercato strangolando le piccole imprese", recita il testo di un comunicato ufficiale.
Il governo aggiunge di nutrire preoccupazioni per la salute dei suoi cittadini, rispetto ai ristoranti locali il cibo di McDonald's è malsano e provoca "grande preoccupazione" nel pubblico. McDonald attualmente non lavora neppure in Islanda , dove chi vuole aprire la propria versione della catena di fast food dovrà utilizzerà prodotti locali e incoraggiare l'industria nazionale. La corona islandese quattro anni fa ha subito un collasso e tutti e tre i ristoranti McDonald nella capitale Reykjavik avevano chiuso, adesso non ci sono piani per riaprire ed i funzionari governativi non hanno voluto autorizzare nuove aperture perché preferiscono dar vita ad una variante locale della catena.
Altri paesi, come la Bolivia, hanno chiuso tutti i ristoranti McDonald's perché catena di fast food proprio non era conveniente. Non che i boliviani non piacesse l’hamburger sembra che la popolazione semplicemente non concepisca il concetto di “fast food”. Anche la Corea del Nord non è mai stata appassionata ai grandi marchi, soprattutto se degli Stati Uniti. "Questo però non ha impedito all'attuale leader Kim Jong e ad altri membri del regime di farsi spedire segretamente hamburger nelle loro case con l'aiuto di aerei civili”, sostiene la rivista.
I ristoranti della McDonald's hanno diversi problemi anche negli Emirati Arabi Uniti e nello Yemen, in parte a causa della debolezza dell'economia e in parte a causa della minaccia di militanti religiosi che attaccano le strutture americane nella zona. A Bermuda McDonald's ha cercato di costruire il primo ristorante nel 1999, ma la gente del posto ha rifiutato, tanto da far approvare una legge che nel paese vieta tutti i ristoranti in “franchising“.
Il Kazakistan è il più grande fra i paesi che hanno detto “no” a McDonald's anche se la situazione potrebbe cambiare presto: i media locali hanno riferito che un importante centro commerciale vorrebbe aprire un “fast food” in stile americano.
In Macedonia, McDonald's ha operato per 16 anni, poi i dirigenti della sede europea della societa’ e le aziende macedoni che avevano ottenuto il “franchising" hanno risolto il contratto e tuttri i sette ristoranti del paese hanno chiuso.
Come in molti paesi africani, l'economia del Ghana potrebbe non essere abbastanza forte per sostenere l'apertura del “McDonald's” visto che la maggior parte dei cittadini non ha un reddito sufficiente a diventare clienti ma in aggiunta a questo, il Ghana non vuole un “McDonald's”. Ci sono voci però che il gigante alimentare stia cercando di aprire nella capitale un ristorante. Più di dieci anni McDonald's ha cercato di ottenere un franchising in Zimbabwe, ma la tempesta politica ha portato al crollo totale dell'economia, e le sanzioni internazionali hanno costretto molte marche di fama mondiale ad andarsere.Due mesi fa, il Vietnam ha aperto il primo ristorante McDonald's nella capitale a seguito dei molti marchi internazionali come Starbucks, Subway, Burger King e la pizza di Domino", conclude la rivista americana.

 
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