Pa amb tomàquet

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Pa amb tomàquet (tradotto letteralmente in italiano come "pane con pomodoro", chiamato Spanish toast o fetta spagnola in inglese, è una semplice e tipica ricetta di Aragona, Catalogna, Valencia e Maiorca, dove riceve il nome di pa amb oli o pamboli (in italiano letterale: "pane con olio d'oliva"). È un piatto simile alla bruschetta. È considerato il piatto più noto della cucina catalana.

Preparazione
La versione più semplice del piatto consiste in una fetta di pane con mezzo pomodoro maturo strofinato, e condito con olio d'oliva e sale. Nella ricetta contadina originaria quest'ultima veniva accompagnata da una sardina in salamoia, ma oggigiorno si serve piuttosto accompagnata di prosciutto, formaggi o salumi affettati, sebbene si possa ritenere pa amb tomàquet una qualsiasi variante di panino o pane tostato purché il pomodoro ci sia stato strofinato.

Origine
Il primo riferimento scritto riguardo a questo piatto risale al XVIII secolo, quando la ricetta viene nominata come panboli bo nel libro Modo de cuynar a la mallorquina di Jaume Martí Oliver. Comunque alcuni autori sostengono che la ricetta sia anteriore, e che tuttavia nei primi tempi non fosse stata apprezzata abbastanza da figurare nei ricettari, trattandosi d'una ricetta troppo semplice ed evidente. In ogni caso non sarebbe una ricetta anteriore all'introduzione del pomodoro nella cucina catalana, avvenuta verso il XVI secolo.

Secondo l'ipotesi più accettata, la ricetta sarebbe nata spontaneamente nelle campagne, dove si sarebbero usati dei pomodori, spesso abbondanti nelle buone raccolte, per ammorbidire il pane secco, anche se in passato se ne era attribuita la diffusione agli immigrati che da Murcia andarono a Barcellona per lavorare nell'Esposizione Universale di Barcellona del 1929, un'ipotesi oggigiorno non molto accreditata.


Come una pizza con uova sode e maionese è diventata il simbolo di Pesaro

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Si chiama Pizza Rossini e potrebbe sembrare un'amenità della provincia. Invece è il simbolo della cittadina marchigiana che la mangia anche a colazione.
Sono sempre stato convinto che la provincia italiana, intesa come l’insieme di tutte le città medio-piccole del Bel paese, sfugga alle categorie con cui di solito cerchiamo di conoscere ogni altro luogo del mondo.
Chi cresce in provincia e diventa fuorisede trasferendosi, come nel mio caso, in posti come Milano inizia in qualche modo a ripudiare la propria provenienza: quando si torna ci si sforza di ricordare a tutti che “qua non c’è mai niente da fare” e che “non vedo l’ora di tornare su, ché qua dopo un po’ mi viene l’ansia”. Certo, a volte sono forzature, ma io che vengo da Pesaro, città adriatica al confine tra Marche e Romagna, quando torno per l’estate spesso avverto come una sensazione Twin Peaksiana, che il tempo scorra ovunque tranne che qua.
Chi vive in questa stagnazione deve quindi riempirsi di abitudini precise, posti a cui giurare fedeltà, una compagnia di amici ben definita e soprattutto una serie di oggetti-culto locali che giustifichino perché qui sia meglio che in qualunque altra provincia. A Pesaro questi simboli non mancano: abbiamo Valentino Rossi, la Vuelle (squadra storicamente nota come Scavolini, militante nella Serie A di basket), la Sfera Grande di Arnaldo Pomodoro (che implicitamente fingiamo non sia presente in altre città) e recentemente siamo stati addirittura capaci di inventare a tavolino un palio medievale mai esistito prima. L’elemento principale intorno a cui ruota l’intero marketing cittadino è però Gioachino Rossini, a cui è stata dedicata anche una pizza, che chiunque non abbia passato del tempo da queste parti difficilmente troverebbe subito appettibile, ma che è probabilmente l’unico culto cittadino ad essere accettato anche da chi da Pesaro è scappato.
Un pesarese in Erasmus cercherà obbligatoriamente di ricreare la Pizza Rossini e di farla assaggiare a persone di più nazionalità possibili, per diffondere il verbo. La Rossini è l’unica cosa che anche i più duri di cuore ammettono gli manchi di Pesaro.
Tornando all’appetibilità di questa pizza: la Rossini è una pizza margherita con l’uovo sodo tagliato a fette e tanta maionese. Quando ho mostrato una foto ad amici milanesi la maggior parte ha mimato il gesto del conato di vomito, e quando in Francia ho provato a commissionarla al mio pizzaiolo pugliese di fiducia mi ha risposto “quindi mangiate proprio di merda a Pesaro, eh?”.
Capisco benissimo la diffidenza di chi con questo piatto davanti non ci è nato, ma sono certo che, salvo eccezioni (chi non ama i singoli ingredienti è in parte giustificato), tutti dopo il primo morso abbiano un’illuminazione che sblocca il loro palato a questo gusto nuovo. Va inoltre detto che la Pizza Rossini in realtà non è semplicemente una margherita con due ingredienti in più, ma è una trinità esattamente come il Dio cristiano e ognuna delle tre varianti racchiude un mondo a sé.
La versione al taglio, quadrata, è quella che si presta meglio all’ambiente familiare: la si prende rigorosamente da asporto nella pizzeria di quartiere e la si mangia in compagnia a casa. La versione al piatto è quella che richiede più dedizione e che, ora, si sta adattando molto bene alle evoluzioni gourmet della pizza. Ma la variante più caratteristica è senza dubbio la mini-rossini da colazione: di solito è tonda e grande più o meno come un CD, ha l’impasto di una classica pizzetta rossa da forno, una o più fette di uovo sodo centrali e una spirale di maionese gialla. Questa rossini mattutina si trova in ogni bar di Pesaro, ma la maniera più giusta di degustarla è tra le 2 e le 6 del mattino, possibilmente dopo una serata piena, in uno dei vari laboratori di panetteria e pasticceria della città che di notte aprono la loro porta sul retro per rimettere al mondo orde di zombie raminghi. Visto il loro orario di servizio, il termine gergale - e poco lusinghiero - usato da queste parti per chiamare questi laboratori è “troie” e ce n’è almeno una per quasi ogni quartiere della città, finché non viene chiusa per schiamazzi notturni o finché chi ci lavora non si stufa della clientela molesta.
Per farvi capire meglio e associare delle immagini a questa descrizione ho deciso di visitare due pizzerie e un laboratorio di Pesaro.


Pizzeria Otello
Comincio dai miei primi ricordi d’infanzia, le passeggiate in centro con i miei e quell’odore di pizza appena sfornata che emergeva da una delle vie minori: si tratta della Pizzeria Otello, un luogo storico di Pesaro dove viene fatta una pizza al taglio più sottile delle altre ma che inspiegabilmente in meno volume racchiude più sapore e apporto nutritivo di qualunque altra pizza della città.
“Lele”, il titolare, mi spiega che l’attuale sede del ristorante risale al 1994, ma che si tratta dell’evoluzione naturale della pasticceria-pizzeria aperta da suo padre Otello nel 1955, che già dal ’69 si trovava in questa via.
Nonostante frequenti questo posto da tutta la vita scopro solo ora che la storia lavorativa della loro famiglia si intreccia con la storia stessa della Pizza Rossini. “C’è una discussione su chi l’abbia inventata”, mi spiega, "maprobabilmente è nata nella pasticceria-pizzeria Montesi”, che ora non esiste più, ma dove una volta lavoravano sua zia e suo padre. Ci tiene a precisare che inizialmente esistevano solo la versione ridotta da colazione e il trancio quadrato e che la mozzarella è stata aggiunta più recentemente. “Montesi ha aperto nel ’46, quindi la rossini nasce negli anni ’50”. Di suo, Lele prepara Rossini da prima del 1977, anno in cui ha iniziato a lavorare per il padre, “ma gli davo già una mano quando ancora andavo a scuola”.


Pizzeria Bartolo
Il secondo ristorante visitato è una delle ultime pizzerie ad aver aperto a Pesaro nel quartiere di Baia Flaminia, un luogo dall’architettura anni ’70 dove le colline incontrano il mare. Bartolo, questo il nome della pizzeria, ha aperto quest’estate e, in una carta che non disdegna i piatti di pesce, propone un’evoluzione della pizza pesarese: la Rossini Evo, con pomodoro biologico della Maremma, mozzarella di latte di bufala marchigiana a crudo, alici del Cantabrico riserva 18 mesi, uova di quaglia sode, basilico e origano selvatico. Per l'impasto semi-integrale sia usa farina macinata a pietra (Mulino Marino) tipo 1 e 2, che riposa 60 ore.
Guai a chiamarla “gourmet”, però: “quella parola la sfruttano tutti solo perché mettono due robine sulla pizza e poi magari non sono neanche fresche”, mi spiega il titolare e pizzaiolo Federico, “noi non diamo la pizza tagliata a spicchi, diamo una pizza normale, classica, però rivisitata a modo mio, con prodotti eccellenti e cercando di seguire le stagioni”.
Alla domanda su come sia nata l’idea della Evo, Federico mi risponde candidamente che le alici del Cantabrico e le uova di quaglia gli piacciono “un bel po’” (espressione pesarese doc); “abbiamo provato ad abbinare il tutto e abbiamo deciso subito di metterla in menù, alla gente è piaciuta molto e adesso è il nostro cavallo di battaglia”.


Il Fornaio Pasticcere
L’ultima tappa del mio viaggio arriva tra notte e mattina nel mio quartiere, la zona portuale della città. In una via in cui sembrano esserci solo vecchie case si apre una porticina verde da cui si intravede uno stanzone rettangolare pieno di macchinari e pile di teglie con brioches e salati. Sulla strada parallela c’è l’ingresso principale con il negozio Il fornaio pasticcere, ma sono più interessato al lato underground del forno, dove incontro Katia, una signora che sforna rossini dal 1987.
Considerando gli orari improponibili e la quantità di cibo da infornare per il giorno seguente, mi chiedo come possa affrontare anche l’invasione giovanile notturna. “Noi la viviamo bene”, mi risponde prima di correggersi, “o meglio, la vivremmo bene se non avessimo tutto il lavoro che abbiamo; noi qua siamo contati e quando vengono i ragazzi dobbiamo lasciar perdere ogni cosa per stare dietro a loro”.
Nonostante un addetto esclusivamente alle vendite sarebbe una manna dal cielo, Katia mi confessa che questa abitudine dei giovani pesaresi è una bella cosa e che è contenta di questa parte del suo lavoro. Il signore che lavora con lei e che si occupa dei dolci sottolinea che, ok, le rossini sono buone, ma anche i panettoni a Natale non scherzano. Se sono buoni come i salati dovreste preoccuparvi, milanesi.
Ad onor del vero, di varianti della rossini ce ne sarebbero altre (come la rossiccia, rossini+salsiccia) e sconfinano anche al di fuori del mondo della pizza: ormai nella maggior parte dei ristoranti pesaresi almeno un piatto composto da questi ingredienti è d’obbligo e non è difficile trovare bruschette rossini, insalate rossini o focacce rossini (per non parlare poi del merchandising). Per dare una vetrina a questa tradizione locale l’anno scorso è stato inaugurato anche un festival dedicato alla pizza pesarese, in cui i ristoratori della zona si sfidano nelle rispettive categorie per aggiudicarsi il titolo di miglior rossini di Pesaro; quest’anno si terrà dal 28 al 30 settembre.
Se siete in vena di conoscere da vicino la provincia marchigiano-romagnola con i suoi pregi e i suoi difetti, e se avete lo spirito giusto per assaggiare un abbinamento che in qualunque altro contesto vi avrebbe fatto passare l’appetito, vi garantisco che il vostro coraggio verrà ricompensato.



Pappa al pomodoro

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La pappa col pomodoro è un piatto "povero" della cucina toscana, più precisamente fiorentina.
L'origine contadina di questo primo piatto è testimoniata dai suoi ingredienti: pane casalingo toscano (non salato) raffermo, pomodori, spicchi d'aglio, basilico, olio di oliva extravergine toscano, sale e pepe. Ad Arezzo questa pietanza è tradizionalmente preparata unendo la cipolla al posto dell'aglio.

Citazioni
La pappa col pomodoro fu conosciuta fuori dalla Toscana per la prima volta nel 1912, perché presente al centro di una delle più celebri pagine de "Il giornalino di Gian Burrasca" dello scrittore fiorentino Vamba.
Inoltre nel 1965, in occasione della trasposizione televisiva di questo libro, Rita Pavone cantò la celebre canzone Viva la pappa col pomodoro, scritta da Lina Wertmüller e musicata da Nino Rota, facente parte della colonna sonora dello sceneggiato.

Pasta al pomodoro

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La pasta al pomodoro, o pasta al sugo per antonomasia, è un primo piatto della cucina italiana, formato da pasta condita con salsa di pomodoro e foglie di basilico.
Il primo riferimento scritto al sugo di pomodoro in un piatto di pastasciutta è nella seconda edizione dell'Apicio Moderno, pubblicato da Francesco Leonardi nel 1807-1808, in cui questo piatto è considerato una variante della ricetta dei "maccaroni alla Napolitana".

Pasta 'ncaciata

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La pasta 'ncaciata, detta anche 'ncasciata, è un piatto presente in quasi tutto il territorio del messinese, ma a Mistretta è una pietanza tipica.

Preparazione
Gli ingredienti sono semplici, come in tutti i prodotti popolari, ma il combinare insieme certi ingredienti e in certi modi crea dei piatti molto gustosi.
Gli ingredienti del condimento sono: pomodori, caciocavallo fresco, carne tritata, salame, uova sode, melanzane, pecorino grattugiato, aglio, vino bianco, basilico, olio, sale, pepe. Per la pasta si usano magliette di maccheroncino.
La pasta si cuoce al dente e si mischia in una casseruola al condimento. La casseruola viene adagiata su uno strato di brace ardente e, una volta messo il coperchio, viene anche coperta di brace, in questo modo la pasta verrà cotta.
Il nome della pasta deriva proprio da questo particolare modo di cottura, infatti "u ncaçio" nel dialetto mistrettese è proprio il rivestire la casseruola con la brace.

Passata di pomodoro

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La passata di pomodoro, o conserva di pomodoro, è una conserva alimentare tipica delle regioni del sud Italia, a base di pomodoro.

Preparazione
Procedura artigianale 1
Si lavano i pomodori, si tagliano a metà e si puliscono dai semini per poi metterli in pentola a fuoco vivace. Quando iniziano a bollire si spegne il fuoco e si attende che il liquido della cottura venga a galla. Togliendo l'acqua si passano i pomodori in una macchina per la passata (elettrica o, oggi meno comunemente, manuale) da cui uscirà la salsa. Nel frattempo si fanno bollire le bottiglie o i vasi di vetro (lasciati aperti) in cui si verserà poi la salsa. Quando entrambi hanno la stessa temperatura si versa la salsa nelle bottiglie (o vasi) che quindi verranno chiuse ermeticamente con i tappi. la procedura presenta dei rischi, in quanto nella fsse di riempimento la salsa o il barattolo possono essere contaminati da polvere o germi.

Procedura artigianale 2
Si lavano i pomodori, si tagliano a metà e si toglie la parte bianca, i semini ed eventuali parti rovinate. A questo punto i pomodori sono già pronti per essere messi nella macchina per la passata di pomodoro (elettrica o manuale) da cui ne uscirà la salsa. Si versa poi la salsa ottenuta nelle bottiglie (o vasi di vetro) ben lavate e le si chiude ermeticamente con i tappi. Si prepara un grande pentolone e lo si riempe di queste bottiglie. Particolare attenzione va posta nella collocazione delle bottiglie e vasi di vetro affinché in fase di bollitura non vibrino e cozzino l'una con l'altra, con il conseguente rischio di rotture. Pertanto è bene prevedere l'utilizzo di stracci tra i vari strati, oltre che predisporre dei pesi sopra il tutto (es. mattonelle pesanti, parti di lastre di metallo, eccetera) che riducano le vibrazioni dei contenitori di vetro. Si accende il fuoco per la bollitura che dura circa 60/75 minuti. Il giorno successivo - o comunque quando l'acqua è tornata a temperatura ambiente - le bottiglie potranno essere estratte...

Pappardelle sul cinghiale

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Le pappardelle sul cinghiale (conosciute anche come "pappardelle al cinghiale") sono un piatto tipico della Maremma Grossetana, Maremma Laziale, dell'Alta Tuscia e dell’Alta Valnerina, terre ricche di selvaggina, che si è diffuso anche nel resto della Toscana, dell’Umbria e nelle zone interne delle Marche, nell'area di Genga.
Per la preparazione del piatto occorrono, oltre alle pappardelle fatte in casa con farina e uova, anche la carne di cinghiale, alcuni pomodori maturi che devono essere passati (o, meglio ancora, conserva) vino rosso (possibilmente uno della zona come il Morellino di Scansano o il Montecucco), cipolla, sedano, carote, rosmarino, alloro, sale, pepe, peperoncino e olio extravergine di oliva, possibilmente maremmano. Vi è chi vi aggiunge delle olive.
Il cinghiale, tagliato a piccoli pezzi, deve essere fatto marinare nel vino rosso con cipolla, carote tagliate a pezzi, sedano e alloro, per almeno 12 ore. Successivamente, si recuperano gli odori usati, si lavano, si tritano e si fanno soffriggere in un tegame; una volta rosolato il tutto si aggiunge la carne di cinghiale e si fa cuocere per un quarto d'ora circa, aggiungendo anche il rosmarino, il peperoncino e un pizzico di sale e pepe.
Subito dopo si aggiunge il passato di pomodoro ottenuto precedentemente, un bicchiere e mezzo di vino rosso e un filo di olio; si copre il tegame e si fa cuocere per circa 4 ore facendo alcune pause di tanto in tanto durante la cottura.
Le pappardelle vanno cotte per tre minuti circa in abbondantissima acqua salata bollente, con aggiunta di un cucchiaio di olio. Una volta scolate si condiscono col ragù di cinghiale ed il piatto è pronto.

 
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