Carni lavorate e rischio di cancro: perché non le etichettiamo come le sigarette


Da anni circola un confronto provocatorio: le carni rosse lavorate sono cancerogene come il tabacco, perché non riportano etichette di avvertimento? La risposta, sorprendentemente, non sta nella scienza, ma nella politica, nella cultura e nel calcolo dei costi-benefici dello Stato.

L’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) colloca sia il tabacco sia le carni lavorate nel “Gruppo 1”, indicando che esiste un legame scientifico certo con il cancro. Ma questa classificazione non misura la potenza del rischio, bensì la certezza della correlazione.

Per il tabacco, le conseguenze sono devastanti: quasi il 90% dei tumori polmonari è attribuibile al fumo. Per le carni lavorate, invece, il rischio aumenta del 18% per ogni 50 grammi consumati al giorno nel caso del cancro al colon-retto. La differenza è cruciale: una condanna quasi certa vs. un aumento relativo di rischio.

Paragonare le due situazioni è come confrontare una roulette russa con cinque proiettili in canna e un attraversamento della strada senza guardare: entrambi potenzialmente pericolosi, ma con gradi di rischio profondamente diversi.

Il secondo ostacolo è politico e culturale. Dichiarare guerra al tabacco è stato relativamente semplice: poche multinazionali, prodotto non necessario alla vita, oggettivamente dannoso. Il salame e la salsiccia, invece, sono radicati nell’identità nazionale, nelle tradizioni familiari e nelle sagre locali.

Intervenire con etichette del tipo “IL SALAME UCCIDE” significherebbe attaccare la cultura popolare, non un’industria distante. L’industria zootecnica è diffusa, radicata in ogni distretto elettorale e legata a partiti, sindacati e politiche locali. Un intervento drastico produrrebbe una rivolta sociale prima ancora di avere effetti sulla salute pubblica.

Lo Stato, in queste circostanze, agisce come un contabile cinico, non come un genitore preoccupato. Il costo sociale e sanitario del tabacco è immediato e devastante: migliaia di morti ogni anno e spese sanitarie enormi. Per le carni lavorate, le conseguenze sono diluite nel tempo, difficili da quantificare e politicamente rischiose da affrontare.

Di fatto, il governo pesa il problema futuro (malattie legate alla carne tra vent’anni) contro il suicidio politico immediato (crollo della filiera zootecnica e contraccolpo elettorale) e la scelta è, prevedibilmente, la più comoda: non intervenire.

Il dibattito sulle carni lavorate e il cancro non riguarda solo la scienza. È una combinazione di percezione del rischio, interessi politici, cultura e potere delle lobby.
Mentre il fumo ha ricevuto etichette e campagne preventive, i salumi continuano a occupare le tavole senza avvertimenti, a dimostrazione di come il rischio scientifico possa essere diluito o ignorato quando entra in conflitto con la cultura e la politica.

In altre parole, la certezza della scienza si scontra con l’aritmetica del potere: il rischio relativo delle carni lavorate è noto, ma affrontarlo richiederebbe una rivoluzione politica e culturale che nessun governo è disposto a intraprendere oggi.


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