Capù, l’abbraccio della verza: tradizione, leggenda e gusto delle valli lombarde


Nel cuore aspro e gentile della Lombardia, dove i pendii si vestono di nebbia e le case di pietra custodiscono il calore del focolare, nasce un piatto che racconta la vita di chi la montagna l’ha abitata e amata: i capù, detti anche nosècc. Dietro il loro aspetto modesto si cela una delle espressioni più sincere della cucina contadina bergamasca e bresciana. Involti di verza che racchiudono un ripieno di carne, pane e uova, i capù non sono soltanto una ricetta, ma un frammento di storia: quella delle famiglie che, con pochi ingredienti e molta fantasia, riuscivano a nutrire e confortare.

Oggi, riscoprirli significa ripercorrere la via del gusto nella sua forma più autentica, tornando a un tempo in cui il cibo non era esibizione ma racconto, memoria e gesto d’amore.

I capù trovano la loro patria nelle valli bergamasche e bresciane, dove la verza cresce rigogliosa nelle stagioni fredde e rappresenta da secoli una risorsa preziosa. L’origine del piatto è umile: nelle famiglie contadine, la carne era un lusso, riservato alle feste o venduto ai signori. Ciò che rimaneva — qualche scarto di macinato, un po’ di pane secco, un uovo, un pezzetto di salame o di cotechino — veniva amalgamato e racchiuso in foglie di verza, poi cotto lentamente fino a diventare un piatto completo e saporito.

Il termine capù ha una doppia radice dialettale: in alcune zone significa “crocchia”, la pettinatura raccolta delle donne, per via della forma tondeggiante dell’involtino; altrove rimanda al “cappone”, l’animale prelibato delle tavole nobiliari. Non a caso, una leggenda spiega la nascita di questo piatto come la creazione del “cappone dei poveri”.

Si narra che, in un piccolo villaggio tra le montagne, un bambino si lamentasse spesso con la madre perché non poteva mai assaggiare il cappone, che il padre vendeva ai ricchi del paese. Un giorno, la donna, stanca di vedere il figlio triste, decise di ingannare la fame e la fantasia. Prese del pane grattugiato, un poco di lardo, un uovo e qualche erba raccolta nell’orto, ne fece un impasto e lo avvolse in una foglia di verza. Lo legò con lo spago e lo mise a bollire nel paiolo per ore, finché la cucina non si riempì di profumo.

Quando servì il piatto, il bambino sorrise e disse che, finalmente, anche lui aveva il suo cappone. Così nacquero i capù: un gesto materno di affetto e ingegno, destinato a diventare una delle più amate tradizioni culinarie lombarde.

Ingredienti per 6 persone:

  • 12 grandi foglie di verza

  • 300 g di carne macinata mista (manzo e maiale)

  • 100 g di cotechino già cotto e tritato (facoltativo)

  • 80 g di pane grattugiato

  • 50 g di Grana Padano grattugiato

  • 2 uova

  • 1 spicchio d’aglio tritato fine

  • Prezzemolo, sale e pepe q.b.

  • 50 g di pancetta o lardo

  • Brodo di carne o acqua q.b.

  • Spago da cucina

Preparazione:

  1. Sbollentare la verza.
    Scegliete le foglie più grandi e integre. Immergetele in acqua bollente salata per pochi minuti, poi scolatele e stendetele su un panno ad asciugare.

  2. Preparare il ripieno.
    In una ciotola unite la carne macinata, il cotechino tritato, il pangrattato, il formaggio, le uova, l’aglio e il prezzemolo. Salate e pepate a piacere, quindi impastate fino a ottenere un composto omogeneo.

  3. Formare gli involtini.
    Stendete due foglie di verza sovrapposte, mettete al centro una pallina di ripieno e richiudete piegando i bordi verso l’interno. Legate ogni involtino con uno spago da cucina, in modo che mantenga la forma durante la cottura.

  4. Cottura lenta.
    In una casseruola capiente sistemate uno strato di pancetta o lardo sul fondo, disponete sopra i capù, coprite con brodo o acqua e fate sobbollire a fuoco basso per circa tre ore. Il liquido deve ridursi lentamente, creando un fondo ricco e profumato.

  5. Servizio.
    Servite i capù caldi, irrorandoli con il loro sugo di cottura. La consistenza sarà morbida e compatta, il gusto pieno e avvolgente.

Ogni valle ha la sua interpretazione. In Val Brembana, i capù prendono il nome di nosècc, che in dialetto significa “annodati”, in riferimento al modo in cui vengono legati con lo spago.

Esiste poi una variante diffusa nel Bresciano in cui la verza viene sostituita dalle erbe bianche — bietole o coste — e la cottura avviene in forno o in padella, con un condimento a base di salsa di pomodoro. Il risultato è un piatto più asciutto e leggermente acidulo, ideale per chi ama sapori più leggeri.

In alcune versioni moderne, si utilizzano verdure alternative come cavolo nero o cappuccio, ma la ricetta autentica rimane quella con la verza invernale, che conferisce ai capù la loro tipica dolcezza minerale.

Il capù è un piatto generoso, dai sapori profondi, che richiede un vino capace di accompagnarne la struttura senza coprirla. Tra i rossi lombardi, il Valcalepio Rosso DOC rappresenta l’abbinamento ideale: un vino di medio corpo, con sentori di prugna e spezie che si legano perfettamente alla sapidità della carne e alla dolcezza della verza.

Chi preferisce un profilo più fresco può optare per un Garda Classico Groppello, dal bouquet fruttato e delicato, o per un Botticino DOC, vino bresciano che regala una piacevole armonia con le note di pancetta e lardo.

Sul piano gastronomico, i capù trovano un compagno naturale nella polenta bergamasca, servita morbida o abbrustolita. L’unione di questi due elementi crea un equilibrio perfetto tra consistenza e gusto, riportando in tavola l’atmosfera delle antiche osterie di montagna.

Oggi i capù non sono soltanto un piatto da gustare, ma un emblema di identità territoriale. Le sagre di Parre e Terzano, che ogni anno celebrano questa pietanza, sono veri e propri riti collettivi dove il tempo sembra fermarsi. Le donne impastano, gli uomini accendono i fuochi e le famiglie si riuniscono per tramandare una tradizione che, seppur semplice, racchiude un mondo di valori: la condivisione, il rispetto per la terra e la gratitudine verso ciò che si ha.

Nel recupero di ricette come quella dei capù si ritrova l’essenza di un’Italia che non dimentica: quella dei sapori lenti, delle mani che lavorano, del cibo come memoria viva.

I capù raccontano una verità antica: non serve l’abbondanza per creare bontà, ma tempo, rispetto e sapienza. Ogni foglia di verza che avvolge il ripieno è un gesto di cura; ogni ora di cottura è un atto di dedizione. Nel loro sapore c’è la voce delle montagne, il silenzio delle stalle, il profumo delle cucine di una volta.

Riscoprirli oggi significa tornare alle radici della nostra identità gastronomica, riscoprendo la bellezza dell’essenziale. Perché dietro la loro forma semplice, i capù nascondono la grandezza della cultura contadina: un’arte che sa trasformare la necessità in tradizione e la tradizione in memoria.



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