Pettole al sugo di braciola napoletana – Un matrimonio di sapori tra Puglia e Napoli

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La cucina del Sud Italia ha una caratteristica inconfondibile: è una sinfonia di contaminazioni regionali che raccontano secoli di scambi, di viaggi familiari, di pranzi della domenica e di tradizioni tramandate a voce. Un piatto che ne è perfetta incarnazione sono le pettole al sugo di braciola napoletana. Non si tratta solo di una combinazione gastronomica, ma di un abbraccio tra due culture che condividono la stessa anima: quella della convivialità.

Le pettole, originarie della Puglia, sono una pasta fresca che può ricordare vagamente le trofie o le orecchiette tirate a mano, ma più allungate e avvolte su sé stesse. Il loro nome deriva dalla parola “pettole” usata anche per definire impasti morbidi e lievitati, ma in questo caso siamo nel mondo della pasta. Corpose e callose al punto giusto, diventano il veicolo perfetto per raccogliere il sugo della braciola napoletana, ovvero involtini di carne cotti lentamente in salsa di pomodoro fino a diventare teneri e saporiti.

La braciola napoletana non ha nulla a che vedere con le costine o le bistecche alla griglia che il nome potrebbe suggerire. È invece una fetta di carne (di solito manzo o vitello) farcita con ingredienti semplici ma saporiti – aglio, prezzemolo, pecorino, pinoli, uvetta – arrotolata e legata, poi stufata a lungo in un sugo di pomodoro profumatissimo.

Questo sugo, denso, profondo, carnoso, è uno dei più straordinari doni della cucina napoletana. In molte famiglie partenopee, la domenica inizia con il “profumo del ragù” che sobbolle per ore e si sposa a pasta lunga. Ma quando incontra le pettole, cambia passo: la pasta pugliese gli offre un’altra consistenza, un’altra voce, e il risultato è da capogiro.

Ricetta: Pettole al sugo di braciola napoletana (per 4 persone)

Per le pettole

  • 400 g di semola rimacinata di grano duro

  • 200 ml circa di acqua tiepida

  • Un pizzico di sale

Per le braciole

  • 4 fettine di carne di manzo sottili (scamone o girello)

  • 2 spicchi d’aglio

  • Prezzemolo fresco tritato

  • 4 cucchiai di pecorino grattugiato

  • 2 cucchiai di pinoli

  • 2 cucchiai di uvetta ammollata

  • Sale e pepe

  • Spago da cucina o stuzzicadenti

Per il sugo

  • 1 l di passata di pomodoro (meglio se di San Marzano)

  • 1 cipolla

  • Olio extravergine d’oliva

  • Sale

  • Basilico fresco

Preparazione

1. Preparate le pettole.
Su una spianatoia disponete la semola a fontana, aggiungete il sale e l’acqua poco alla volta. Impastate fino a ottenere un panetto liscio e sodo. Copritelo con un canovaccio e lasciate riposare 30 minuti. Poi dividete l’impasto e formate dei cilindretti da cui ricaverete delle striscioline lunghe circa 5-6 cm. Avvolgetele leggermente su sé stesse usando il palmo della mano. Mettete da parte su un vassoio infarinato.

2. Preparate le braciole.
Stendete le fettine di carne, salate e pepate leggermente. Farcite ciascuna con uno spicchio d’aglio tritato, prezzemolo, pecorino, pinoli e uvetta. Arrotolate la carne su sé stessa formando un involtino e legate con spago da cucina o fermate con stuzzicadenti.

3. Cuocete il sugo.
In una casseruola capiente fate soffriggere la cipolla tritata in olio extravergine. Quando è dorata, aggiungete le braciole e rosolatele bene da ogni lato. Versate quindi la passata di pomodoro, salate, coprite e lasciate cuocere a fiamma bassissima per almeno 2 ore, mescolando di tanto in tanto. A fine cottura aggiungete foglie di basilico fresco. Le braciole dovranno risultare morbidissime.

4. Cuocete la pasta.
Lessate le pettole in abbondante acqua salata finché vengono a galla e sono al dente (5-6 minuti circa). Scolatele e conditele con abbondante sugo delle braciole.

Come servire e con cosa accompagnare

Servite le pettole al sugo ben calde, con un’ulteriore spolverata di pecorino o parmigiano a piacere. Accanto, portate in tavola le braciole intere, da gustare come secondo piatto o spezzettare sopra la pasta per renderla ancora più ricca.

Per accompagnare, scegliete un vino rosso strutturato del Sud, come un Aglianico del Vulture, un Primitivo di Manduria o un Taurasi. La struttura del vino deve reggere la potenza del sugo e il carattere della carne.

Le pettole al sugo di braciola non sono solo cibo: sono la rappresentazione di una domenica meridionale, dove si cucina per ore, si condivide, si racconta. È un piatto che merita tempo e rispetto, ma che ripaga con una ricchezza di sapori che pochi altri riescono a offrire.

Chi le prepara compie un gesto antico: trasforma pochi ingredienti in una celebrazione del gusto, unendo due territori che da secoli parlano lingue diverse ma condividono la stessa passione per la cucina vera. È un piatto che si può raccontare solo assaporandolo, magari con il sugo che macchia la tovaglia e con il profumo che riempie la casa.



Penne all’ubriaca – Il primo piatto toscano che cuoce nel vino e racconta la terra

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C’è un modo unico di cucinare la pasta che sa di vigne, di chiacchiere da osteria, di mani screpolate dal lavoro nei campi e di cucine dove il vino è ingrediente quotidiano, non vezzo da gourmet. Le penne all’ubriaca sono un piatto rustico, umile eppure sorprendente, che nasce nel cuore della Toscana contadina. Un piatto rosso sangue, dal sapore intenso, dove la pasta non viene semplicemente condita ma cotta nel vino rosso, come si farebbe con il riso di un risotto.

Non è una pasta da tutti i giorni, ma da momenti in cui si ha voglia di osare qualcosa di diverso pur restando nella semplicità. Non è complicata, ma pretende rispetto per gli ingredienti: un vino di carattere, uno spicchio d’aglio che sa farsi sentire, un olio extravergine deciso. È una pasta “ubriaca”, sì, ma con lucidità da vendere.

Le penne all’ubriaca nascono come piatto di recupero: il vino aperto da un paio di giorni non si butta, si usa. E in Toscana – ma anche in alcune zone dell’Umbria e del Lazio – il vino rosso è parte della cucina quasi quanto l’olio. Secondo la tradizione orale, questo piatto veniva preparato nei giorni di vendemmia o durante l’inverno, quando in casa non c’era molto e si cercava un piatto caldo e corroborante, magari con una fetta di pane tostato a raccogliere il sugo.

Il vino – rigorosamente rosso, corposo, spesso un Chianti o un Montepulciano – colora la pasta e la trasforma, impregnandola di aromi, lasciando il suo alcol evaporare ma mantenendo l’anima. E il colore? Viola intenso, quasi porpora, scenografico e invitante.

Ricetta: Penne all’ubriaca (per 4 persone)

Ingredienti

  • 400 g di penne rigate

  • 750 ml di vino rosso secco (Chianti, Montepulciano o Nero d’Avola)

  • 2 spicchi d’aglio

  • 1 cipolla rossa di Tropea

  • 1 peperoncino fresco o secco (facoltativo)

  • 1 cucchiaio di concentrato di pomodoro

  • Olio extravergine di oliva q.b.

  • Sale

  • Pepe nero macinato fresco

  • Prezzemolo o rosmarino (opzionale)

  • Pecorino stagionato o Parmigiano (facoltativo)

Preparazione

1. Preparate il soffritto.
In una larga padella o casseruola versate 3 cucchiai d’olio extravergine e fatevi rosolare gli spicchi d’aglio schiacciati e la cipolla rossa tagliata finemente. Se gradite, unite anche un po’ di peperoncino. Fate appassire il tutto dolcemente per circa 5-7 minuti.

2. Aggiungete il concentrato.
Unite il concentrato di pomodoro, mescolate bene per stemperarlo e lasciatelo insaporire per un paio di minuti.

3. Versate il vino.
Aggiungete tutto il vino e portate a leggero bollore. Salate con moderazione (il vino già conferisce una nota sapida) e pepate a piacere.

4. Cuocete la pasta nel vino.
Unite le penne direttamente nella padella con il vino bollente. La pasta dovrà cuocere come in un risotto: mescolate spesso e aggiungete eventualmente un mestolo d’acqua calda se il liquido dovesse asciugarsi troppo prima che la pasta sia al dente. Ci vorranno circa 12-14 minuti. Alla fine dovrete avere un sugo avvolgente, quasi cremoso, che tinge la pasta di un viola vivido.

5. Finite e servite.
Spegnete il fuoco, togliete l’aglio, assaggiate per regolare di sale e pepe. Aggiungete un filo d’olio a crudo e, se vi piace, una manciata di pecorino stagionato grattugiato oppure qualche ago di rosmarino tritato finemente. Servite ben calde.

Il modo migliore per accompagnare le penne all’ubriaca è servire lo stesso vino usato nella cottura. Questo perché gli aromi si rafforzano e creano una continuità perfetta. Se avete usato un Chianti, continuate con quello: la sua acidità bilancia la ricchezza del piatto. Se avete optato per un Montepulciano d’Abruzzo, esalterà le note terrose dell’aglio e della cipolla. In ogni caso, scegliete un vino secco, strutturato e con tannini ben presenti.

Per chi ama l’abbinamento creativo, provate con un Ciliegiolo in purezza, o un Canaiolo, vitigni locali spesso sottovalutati ma straordinari in abbinamenti rustici.

Le penne all’ubriaca non sono solo un piatto: sono un gesto. Richiedono attenzione, come tutte le cose semplici. Non bastano pochi minuti e ingredienti casuali. Servono equilibrio, qualità e pazienza. È una ricetta che stupisce, ma che non tradisce la sua natura popolare.

È perfetta per una cena conviviale, per chi vuole portare in tavola qualcosa di diverso senza snaturare la tradizione. È anche un ottimo primo vegetariano, personalizzabile con qualche verdura di stagione o con una grattugiata di formaggio robusto.

Insomma, è una pasta che merita un posto nella vostra cucina. E che forse, più di tante altre, racconta cosa significhi cucinare con quello che si ha, con gusto, con rispetto e con un pizzico di allegria. Anche un po’ brilla.



Lasagne con sugo di arrosto di vitello: la ricetta che racconta domeniche d'altri tempi

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C’è un certo silenzio, carico di attesa, che precede il pranzo della domenica. È quel momento in cui il profumo esce dalla cucina e si infila negli angoli della casa, evocando memorie antiche, tavole imbandite, voci familiari. In molte regioni d’Italia, la lasagna è la regina indiscussa di questa scena. Ma non tutte le lasagne sono uguali. Ce n’è una, più rustica, meno conosciuta rispetto alla sua cugina bolognese, che ha radici profonde nella tradizione domestica: la lasagna con sugo di arrosto di vitello.

Questo piatto non nasce per stupire a tavola con effetti speciali. Nasce per durare nella memoria. È un’espressione pura della cucina di recupero, quella che non butta via nulla e anzi, trasforma gli avanzi nel cuore del banchetto. Perché il sugo di arrosto, denso, brunito, ricco di sfumature, contiene in sé una complessità che nessun ragù potrà mai replicare: la stratificazione di sapori ottenuta da una cottura lenta, il fondo caramellato, le ossa, le erbe, le verdure lasciate quasi a confondersi con la carne.

Le origini di questa preparazione affondano nella campagna centro-settentrionale, in quei contesti dove la carne di vitello veniva cotta la domenica mattina presto, profumata con aglio, salvia e rosmarino, sfumata con vino bianco e dimenticata nel forno per ore. L’arrosto serviva come secondo, il sugo – recuperato, arricchito, filtrato – diventava la base per condire le tagliatelle o, appunto, le lasagne.

In Emilia, Toscana, Umbria e Marche si possono trovare varianti simili, tutte accomunate da un principio: nulla si spreca, tutto si trasforma. E ciò che nasce da una logica di economia domestica diventa, per una sorta di alchimia della lentezza, un piatto sontuoso.

La ricetta: precisione e sentimento

Ingredienti per 6 persone

Per l’arrosto e il sugo:

  • 800 g di fesa o noce di vitello

  • 1 cipolla bionda

  • 2 carote

  • 1 gambo di sedano

  • 1 spicchio d’aglio

  • 1 rametto di rosmarino

  • 4 foglie di salvia

  • 1 bicchiere di vino bianco secco

  • 700 ml di brodo di carne (anche di dado, se fatto bene)

  • Olio extravergine di oliva q.b.

  • Sale e pepe nero

Per la besciamella:

  • 1 litro di latte intero

  • 100 g di burro

  • 100 g di farina 00

  • Noce moscata

  • Sale

Per assemblare:

  • 250 g di lasagne fresche all’uovo (meglio se fatte in casa o artigianali)

  • 100 g di Parmigiano Reggiano grattugiato

  • Qualche fiocchetto di burro

Preparazione: una cucina che non ha fretta

1. L’arrosto.
In una casseruola capiente (meglio se in ghisa o alluminio pesante), versate un giro generoso d’olio e fatevi rosolare l’aglio intero con la cipolla, il sedano e la carota tritati grossolanamente. Dopo 5 minuti, aggiungete le erbe e la carne, salata e pepata in superficie. Rosolate da tutti i lati fino a ottenere una crosticina dorata. Sfumate con il vino bianco, lasciate evaporare l’alcol e poi versate il brodo caldo fino a coprire metà della carne. Coprite, abbassate la fiamma e cuocete per almeno 2 ore e mezza, girando ogni 30 minuti e aggiungendo poco brodo se serve.

2. Il sugo.
Quando la carne è cotta e tenera, toglietela e mettetela da parte (servirà anche come secondo). Frullate il fondo di cottura con un mixer a immersione e poi filtratelo in un colino fine. Rimettetelo sul fuoco per farlo restringere: dovrete ottenere una salsa spessa, quasi cremosa. Assaggiate e regolate di sale.

3. La besciamella.
In un pentolino sciogliete il burro, aggiungete la farina e mescolate energicamente con una frusta per ottenere un roux. Cuocetelo un paio di minuti, poi versate il latte a filo continuando a mescolare. Fate cuocere finché la salsa non si addensa, poi aggiungete un pizzico di noce moscata e sale.

4. Le lasagne.
Scottate la sfoglia fresca per 30 secondi in acqua bollente salata e raffreddatela subito in acqua fredda. Disponetela su un canovaccio pulito.

5. Assemblaggio.
Imburrate una teglia e stendete un primo strato di sugo. Poi sfoglia, altra salsa di arrosto, un paio di cucchiai di besciamella, una spolverata di Parmigiano. Proseguite per almeno 4 strati. Chiudete con sugo, besciamella, Parmigiano e qualche fiocco di burro.

Cuocete in forno statico a 180°C per 35 minuti. Gli ultimi 5 minuti con il grill per gratinare la superficie.

Lasciate riposare almeno 10 minuti prima di servire.

Una lasagna con sugo di arrosto non chiede l’eccesso, ma la compagnia giusta. Evitate vini troppo aggressivi o giovani. Servite un Chianti Classico Riserva, oppure un Langhe Nebbiolo: entrambi hanno la giusta struttura per accompagnare la sapidità del Parmigiano e la profondità del sugo senza coprire il delicato equilibrio della carne di vitello.

Chi preferisce il bianco, può puntare su un Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore: complesso, minerale, con quella vena amaricante finale che pulisce il palato.

Cucinare questa lasagna significa recuperare un’idea di tempo che sembra perduta. È una ricetta che non si improvvisa in mezz’ora, ma che restituisce in sapore ciò che chiede in attenzione. E se preparata al sabato, acquista ancor più gusto il giorno dopo. È perfetta per il pranzo con amici o in famiglia, per una festa o anche solo per riconciliarsi con l’arte di cucinare senza scorciatoie.

Non serve reinventarla. Serve ripeterla. Come una formula tramandata. Come un rituale gentile. Come una promessa fatta col forno acceso.




Triglie fritte con burro alle acciughe: un’eleganza marina che conquista il palato

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Croccanti all’esterno, tenere all’interno, le triglie fritte si esaltano nel contrasto sapido e cremoso del burro alle acciughe. Una ricetta della tradizione che parla al gusto con raffinata semplicità.

La triglia è tra i pesci più amati del Mediterraneo, protagonista silenziosa delle cucine costiere. Da sempre presente nei mercati ittici di Liguria, Campania, Sicilia e Sardegna, la sua carne delicata e saporita ha attraversato secoli di tradizione popolare per giungere, oggi, sulle tavole più esigenti.

In passato era considerata un pesce “modesto”, raccolta in reti tirate a mano e venduta direttamente dai pescatori. Veniva fritta intera, spesso con poco altro a condirla se non limone e olio d’oliva. Ma come accade con tutti gli ingredienti autentici, il tempo e la cura di chef e osti hanno elevato questo pesce fino a renderlo protagonista in preparazioni eleganti ma mai complicate.

È in questo contesto che nasce la ricetta delle triglie fritte con burro alle acciughe, un abbraccio tra due ingredienti simbolo della cucina costiera. Il risultato? Un equilibrio perfetto tra la dolcezza del pesce e la salinità dell’emulsione, che esalta la materia prima senza sovrastarla.

Per ottenere un risultato degno della migliore osteria affacciata sul mare, la selezione degli ingredienti è essenziale. La triglia deve essere freschissima: occhi vivi, branchie rosse e carne soda. Le acciughe, meglio se del Mar Cantabrico o sott’olio di alta qualità, devono essere mature e carnose, mai troppo salate.

Il burro, che fungerà da base per la salsa, dovrebbe essere dolce e cremoso, non troppo freddo, per amalgamarsi al meglio con la sapidità delle acciughe. Farina di semola per la frittura, olio di semi ad alto punto di fumo (arachide o girasole raffinato) e un pizzico di pepe nero completano il quadro. Nessun ingrediente superfluo, solo ciò che serve.

La ricetta: come preparare le triglie fritte con burro alle acciughe

Ingredienti per 4 persone:

  • 8 triglie medie, eviscerate e pulite

  • 50 g di farina di semola rimacinata

  • Olio di semi per friggere (arachide consigliato)

  • Sale q.b.

  • Pepe nero macinato fresco

Per il burro alle acciughe:

  • 80 g di burro di ottima qualità, ammorbidito

  • 6 filetti di acciuga sott’olio

  • 1 cucchiaino di succo di limone

  • Una grattugiata leggera di scorza di limone non trattato

  • Qualche goccia di salsa Worcestershire (opzionale)

Preparazione

1. Preparazione del burro alle acciughe
Lascia il burro a temperatura ambiente per almeno 30 minuti, fino a renderlo facilmente lavorabile. In un piccolo mixer da cucina, unisci i filetti di acciuga ben sgocciolati, il succo e la scorza di limone, e, se lo desideri, una punta di salsa Worcestershire. Frulla fino ad ottenere una crema liscia. Aggiungi il burro e lavora fino a ottenere un composto omogeneo e profumato. Trasferisci su pellicola trasparente, arrotola formando un cilindro e lascia raffreddare in frigorifero per almeno 1 ora.

2. Frittura delle triglie
Asciuga accuratamente le triglie già pulite, passale nella farina di semola, eliminando l’eccesso. Scalda l’olio in una padella larga fino a raggiungere i 180°C (puoi testare la temperatura immergendo un piccolo pezzetto di pane: se sfrigola subito, è pronta). Friggi le triglie poche alla volta, 2-3 minuti per lato, fino a doratura uniforme. Scolale su carta assorbente, salale leggermente.

3. Servizio
Disponi le triglie calde su un piatto da portata o su un tagliere di legno. Taglia il burro alle acciughe a rondelle e adagiane una o due su ciascun pesce. Il calore farà sciogliere lentamente il burro, avvolgendo il fritto con un velo saporito. Aggiungi una spolverata di pepe nero e servi subito.

Le triglie fritte con burro alle acciughe richiedono un vino bianco con buona acidità, capace di pulire il palato e accompagnare senza invadenza. Un Vermentino di Gallura, fresco e minerale, si sposa alla perfezione. Anche un Fiano di Avellino, con le sue note floreali e il corpo elegante, rappresenta un’ottima scelta.

Per chi ama osare, uno spumante metodo classico a base Chardonnay può aggiungere una nota briosa e raffinata, mentre in estate una birra chiara artigianale, leggera e con bouquet agrumato, offre un’alternativa sorprendente ma coerente.

Consigli dello chef

  • Non affrettare la frittura: il segreto è friggere poche triglie alla volta per non abbassare la temperatura dell’olio. Una frittura dorata e asciutta è il primo passo per un piatto perfetto.

  • Burro alle acciughe come jolly: può essere preparato in anticipo e utilizzato anche su carni bianche, verdure arrosto o spalmato su pane caldo.

  • Alternativa più leggera: se desideri una versione meno impegnativa, puoi cuocere le triglie al forno a 200°C per 10 minuti, poi servirle con il burro aromatizzato.

C'è qualcosa di profondamente autentico nelle triglie. La loro carne tenera, il colore acceso, il profumo salmastro che evocano. Eppure, in questa ricetta, tutto si trasforma in un gesto moderno: il burro fuso porta morbidezza, le acciughe concentrano l’essenza del mare, la frittura dona struttura.

È una cucina che non si maschera dietro tecniche complesse. È schietta, fatta di ingredienti riconoscibili, ma serviti in un abbinamento che lascia spazio all'immaginazione e alla memoria. Ogni boccone racconta di pescatori all’alba, di mani esperte che sfilettano con precisione, di fuochi accesi in case affacciate sul porto.

E forse, nel silenzio di un pranzo al sole, con un bicchiere di bianco fresco e il mare in lontananza, questo piatto può persino farci viaggiare, anche solo per qualche istante.

Le triglie fritte con burro alle acciughe sono più di una semplice pietanza. Sono una dichiarazione d’amore alla cucina mediterranea, quella fatta di pochi gesti ben pensati e di sapori netti. Non servono decine di ingredienti né tecniche da manuale. Serve rispetto per la materia prima, attenzione nella preparazione e la volontà di portare in tavola qualcosa che parli, davvero, di mare.

Provale. Preparale. E assapora una ricetta che unisce passato e presente in un equilibrio difficile da dimenticare.


Condividila, raccontaci la tua variante o il tuo vino preferito da abbinare. La cucina è anche questo: memoria, sperimentazione e piacere condiviso.



Souvlaki: lo street food greco che racconta un popolo

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Profumo di carne grigliata, spezie che si mescolano alla brace e pane caldo che avvolge ogni morso: il souvlaki non è solo uno spiedino di carne, ma una delle espressioni più autentiche del cibo di strada ellenico. Semplice, diretto, conviviale. È il piatto che trovi a ogni angolo di Atene come nelle isole più remote, che unisce tutte le generazioni con un linguaggio comune: quello del gusto.

Il souvlaki affonda le sue radici nella Grecia classica, dove già Omero raccontava di carne infilzata e cotta sul fuoco. Il termine stesso viene da souvla, che significa “spiedo”, e ha attraversato i secoli adattandosi alle disponibilità locali: agnello, maiale, pollo o anche pesce, marinati e grigliati fino a raggiungere la perfetta combinazione tra tenerezza e sapore affumicato.

Nel corso degli anni il souvlaki si è evoluto: dagli spiedini semplici serviti con pane a piatti completi in pita con pomodoro, cipolla, patatine fritte, salsa tzatziki, diventando il cibo veloce per eccellenza della cultura greca. Economico, sostanzioso, pronto da gustare con le mani.

Ricetta tradizionale del souvlaki di maiale

Ingredienti per 4 persone

Per gli spiedini:

  • 600 g di spalla o collo di maiale, tagliato a cubetti

  • 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva

  • Succo di 1 limone

  • 1 cucchiaino di origano secco greco

  • 1 spicchio d’aglio tritato finemente

  • Sale e pepe nero macinato al momento

Per servire:

  • Pita greca (4 dischi)

  • Tzatziki (yogurt greco, cetriolo grattugiato, aglio, olio, aceto)

  • Pomodoro a fette

  • Cipolla rossa a rondelle sottili

  • Patatine fritte (facoltative)

  • Paprika dolce o affumicata

Preparazione

1. Marinatura della carne
In una ciotola capiente, mescolate l’olio d’oliva, il succo di limone, l’origano, l’aglio, sale e pepe. Aggiungete i cubetti di carne e mescolate bene. Coprite con pellicola e lasciate marinare in frigorifero per almeno 2 ore (meglio se tutta la notte).

2. Infilzare e grigliare
Trascorso il tempo di marinatura, infilzate la carne su spiedini di legno (ammollati in acqua per 30 minuti) o di metallo. Grigliate su barbecue, piastra o griglia ben calda per circa 10 minuti, girandoli spesso finché non risultano dorati fuori e succosi dentro.

3. Scaldare la pita
Scaldate le pita su una padella calda o sulla griglia per 1-2 minuti per lato, finché non diventano morbide e leggermente tostate.

4. Comporre il piatto
Servite gli spiedini di souvlaki con la pita arrotolata o aperta, accompagnando con tzatziki, fettine di pomodoro, cipolla, patatine e una spolverata di paprika.

Varianti popolari

  • Souvlaki di pollo: più leggero, marinato con limone, olio, origano e yogurt.

  • Souvlaki di agnello: più intenso e ricco, spesso arricchito con rosmarino e cumino.

  • Versione vegetariana: spiedini di halloumi grigliato con verdure, serviti nello stesso stile.

Per un’esperienza completa, accompagna il tuo souvlaki con un calice di Retsina, vino bianco greco resinoso che si sposa perfettamente con l’untuosità della carne e la freschezza dello tzatziki. Oppure scegli una lager greca come Mythos o Fix. Se preferisci un’opzione analcolica, prova uno yogurt salato diluito con acqua e menta, molto rinfrescante.

Il souvlaki è un piatto che parla di casa, strada, estate, ma si adatta a ogni stagione e occasione. Facile da preparare, può essere servito per una cena tra amici, una grigliata improvvisata o un pranzo veloce e gustoso. Ma soprattutto, è una celebrazione della semplicità fatta con ingredienti freschi e genuini, in grado di evocare le piazze assolate di Atene anche nella cucina di casa.

Un boccone che profuma di viaggi, condivisione e storia.



Ravioli all’ossobuco: la Milano più autentica racchiusa in un boccone

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I ravioli all’ossobuco sono molto più di un semplice piatto: rappresentano un ponte tra la tradizione lombarda più verace e l’arte della pasta ripiena. Un incontro tra il comfort food casalingo e la raffinatezza del gesto gastronomico, che porta in tavola i profumi del risotto alla milanese e la succulenza della carne cotta lentamente.

Oggi vi accompagno nella scoperta di una ricetta che affonda le radici nella cucina popolare, reinterpretandola in una veste sorprendente. Questi ravioli racchiudono nel loro ripieno il sapore intenso e inconfondibile dell’ossobuco brasato, mentre il condimento – spesso una semplice crema di midollo o burro e salvia – lascia che il protagonista rimanga il contenuto.

L’ossobuco è un piatto profondamente legato a Milano, protagonista immancabile insieme allo zafferano. Il taglio – uno stinco di vitello con l’osso centrale ricco di midollo – viene cotto lentamente con cipolla, vino bianco, brodo e, a volte, pomodoro. Il risultato è una carne tenerissima che si sfilaccia con la forchetta e un fondo di cottura aromatico che profuma tutta la cucina.

Trasformare l’ossobuco in ripieno per ravioli non è un esercizio di stile, ma un modo di conservarne l’essenza, dandole una nuova forma. Ogni boccone diventa un piccolo concentrato di memoria e gusto.

Ingredienti per 4 persone

Per il ripieno:

  • 2 ossibuchi di vitello (circa 500-600 g)

  • 1 cipolla dorata

  • 1 carota

  • 1 costa di sedano

  • 1 spicchio d’aglio

  • 1 bicchiere di vino bianco secco

  • 500 ml di brodo di carne

  • 2 cucchiai di parmigiano grattugiato

  • 1 cucchiaino di scorza di limone grattugiata (per omaggiare la gremolada)

  • Olio extravergine d’oliva

  • Sale e pepe q.b.

Per la pasta:

  • 300 g di farina 00

  • 3 uova medie

  • Un pizzico di sale

Per il condimento:

  • Burro chiarificato q.b.

  • Qualche foglia di salvia fresca

  • Eventuale fondo ristretto dell’ossobuco

  • Scaglie di parmigiano o midollo sciolto (opzionale)

Preparazione

1. Cuocere l’ossobuco
In una casseruola capiente, rosolate in olio evo la cipolla tritata, il sedano e la carota. Aggiungete l’aglio schiacciato, quindi i due ossibuchi infarinati. Rosolateli bene su entrambi i lati, poi sfumate con il vino bianco. Lasciate evaporare l’alcol, quindi aggiungete il brodo caldo, coprite e fate cuocere a fuoco lento per circa 1 ora e mezza. La carne dovrà disfarsi con la forchetta.

2. Preparare il ripieno
Quando l’ossobuco è pronto, separate la carne dall’osso e tritatela finemente al coltello (o con un mixer a scatti). Aggiungete 1 o 2 cucchiai del fondo ristretto di cottura, il parmigiano, la scorza di limone grattugiata e, se volete, un cucchiaino di midollo. Regolate di sale e pepe. Lasciate intiepidire.

3. Impastare la sfoglia
Fate una fontana con la farina, rompete al centro le uova e aggiungete un pizzico di sale. Impastate energicamente per circa 10 minuti fino a ottenere una pasta liscia ed elastica. Avvolgete in pellicola e fate riposare almeno 30 minuti.

4. Formare i ravioli
Stendete la pasta in sfoglie sottili (2 mm), adagiate piccole noci di ripieno ben distanziate, coprite con un’altra sfoglia e sigillate bene i bordi. Ritagliate con una rotella o un coppapasta. Conservate su un vassoio infarinato.

5. Cuocere e condire
Lessate i ravioli in acqua salata per 3-4 minuti. In una padella fate sciogliere burro chiarificato con salvia. Scolate i ravioli direttamente nella padella e fate insaporire a fuoco dolce. Aggiungete, se desiderate, un cucchiaio del fondo dell’ossobuco o una noce di midollo sciolta, per un sapore ancora più profondo.

Un piatto così ricco e strutturato chiede un vino di pari complessità. Ottimo un Nebbiolo o un Valtellina Superiore, che con i suoi tannini eleganti e la freschezza minerale bilancia la morbidezza della carne. In alternativa, anche un Chianti Riserva può accompagnare con dignità questa ricetta, soprattutto se si è scelto un condimento più intenso. Se invece si opta per una versione con burro e salvia leggera, si può osare anche un Lugana strutturato o un Verdicchio Riserva.

I ravioli all’ossobuco non sono una semplice variazione sul tema, ma una dichiarazione d’amore per la cucina lombarda, capace di trasformare una ricetta antica in un boccone moderno, elegante, mai scontato. Perfetti per una domenica speciale, un pranzo conviviale o una cena autunnale, raccontano con discrezione e intensità l’anima di Milano e della sua tavola.

Un piatto che parla sottovoce ma lascia il segno.



Takoyaki-mania: da Osaka alle strade d’Italia, il boom delle polpette di polpo giapponesi

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Nascono come cibo di strada a Osaka, ma oggi conquistano anche i palati italiani: le takoyaki, piccole sfere di pastella ripiene di polpo, sono il nuovo street food giapponese che sta facendo impazzire gourmet e curiosi.

C’è un profumo inconfondibile che aleggia tra i vicoli affollati di Dotonbori, cuore pulsante di Osaka. È l’aroma fragrante delle takoyaki, le celebri polpette di polpo giapponesi che da decenni attirano turisti e locali attorno a piastroni roventi e gesti sapienti. Oggi, questo cult dello street food nipponico sta vivendo un momento di gloria anche in Italia, tra festival gastronomici, food truck e bistrot asiatici che ne propongono versioni sempre più fedeli all’originale.

Il termine “takoyaki” deriva da tako (polpo) e yaki (grigliato/cotto), e descrive esattamente la loro natura: palline di pastella croccanti fuori e morbide dentro, con un cuore di polpo cotto, cipollotto, zenzero marinato e croccanti tenkasu (frammenti di pastella fritta). Vengono cotte su una speciale piastra bombata e girate abilmente con bacchette metalliche fino a diventare perfettamente sferiche.

Tradizionalmente vengono servite caldissime, condite con salsa takoyaki (simile alla Worcestershire), maionese giapponese, alga aonori e fiocchi di tonnetto essiccato (katsuobushi), che si muovono visibilmente per effetto del calore, dando un tocco quasi "vivente" al piatto.

Le takoyaki sono nate negli anni Trenta grazie a un venditore ambulante di Osaka, Tomekichi Endo, che modificò una ricetta precedente chiamata akashiyaki (più morbida e servita con brodo) dando vita a una delle specialità più amate della cucina giapponese. Osaka, da allora, ne è diventata la capitale spirituale e materiale: ogni angolo della città ospita piccoli stand che le servono al momento, spesso a prezzi irrisori.

Negli ultimi due anni, complici l’esplosione della cultura pop giapponese e il crescente interesse per lo street food autentico, anche in Italia le takoyaki sono diventate sempre più visibili. Dapprima timidamente nei ristoranti giapponesi gestiti da chef del Sol Levante, oggi anche nei mercati urbani, nei locali fusion e durante fiere a tema Asia.

In città come Milano, Torino, Roma e Bologna, non è raro trovare food truck dedicati, spesso con cuochi giapponesi alla piastra. Alcuni propongono anche versioni vegetariane, con funghi shitake al posto del polpo, o creative, con formaggio o pancetta, pur mantenendo l’estetica e la cottura tradizionali.

Le ragioni del successo sono diverse: innanzitutto, le takoyaki sono spettacolari da vedere, grazie alla piastra rotonda e alla coreografia della cottura. Poi sono comfort food puro: croccanti fuori, cremosi dentro, saporiti e divertenti da mangiare. Infine, sono perfetti per i social: piccoli, colorati, unici nel loro genere.

In Italia, oggi è possibile trovare ingredienti e piastre per takoyaki nei negozi specializzati o online. Prepararle in casa è un’esperienza affascinante, anche se richiede un po’ di manualità. Ecco una versione base per 4 persone:

Ingredienti:

  • 200 g di farina per takoyaki (o farina 00 con un pizzico di dashi granulare)

  • 2 uova

  • 500 ml di brodo dashi

  • 200 g di polpo cotto a dadini

  • 2 cucchiai di zenzero marinato (beni shoga)

  • 2 cucchiai di cipollotto tritato

  • 2 cucchiai di tenkasu (tempura crumbs)

  • Olio per ungere la piastra

Per guarnire:

  • Salsa takoyaki (o okonomiyaki)

  • Maionese giapponese

  • Aonori (alga in polvere)

  • Katsuobushi (fiocchi di tonno essiccato)

Preparazione:

  1. Mescolate farina, uova e brodo fino a ottenere una pastella fluida.

  2. Scaldate la piastra per takoyaki, ungetela bene e versate la pastella in ogni incavo.

  3. Aggiungete un po’ di polpo, cipollotto, zenzero e tenkasu in ogni pallina.

  4. Quando la parte inferiore inizia a solidificarsi, girate ogni takoyaki con uno spiedino.

  5. Cuocete fino a doratura uniforme.

  6. Servite subito con le salse e i condimenti sopra.

Le takoyaki si sposano benissimo con birre leggere, lager giapponesi o anche con un calice di prosecco brut, per contrastare la grassezza del piatto. Se volete rimanere in tema, provate un sakè leggero o un tè verde freddo per un pairing autentico.

Il successo delle takoyaki in Italia è solo l’ultima tappa di un percorso più ampio: quello di un paese sempre più affascinato dalla gastronomia giapponese vera, quella che vive di regionalismi, dettagli e rituali. Dietro ogni pallina c’è una storia di tradizione, di perizia e di convivialità. Non è solo uno snack: è un modo di mangiare insieme, in piedi, per strada, magari ridendo mentre ci si scotta la lingua.

Se non le avete ancora provate, è il momento di farlo. Che sia a Osaka o al mercato del sabato sotto casa, una cosa è certa: dopo la prima porzione, vorrete subito la seconda.



 
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