Caffè Pedrocchi

0 commenti

Risultati immagini per Caffè Pedrocchi



Il Caffè Pedrocchi è un caffè storico di fama internazionale, situato nel pieno centro di Padova, in via VIII Febbraio nº 15. Aperto giorno e notte dal 1916 e perciò noto anche come il "Caffè senza porte", per oltre un secolo è stato un prestigioso punto d'incontro frequentato da intellettuali, studenti, accademici e uomini politici. L'8 febbraio 1848, il ferimento al suo interno di uno studente universitario diede il via ad alcuni dei moti caratterizzanti il Risorgimento italiano e che sono ancora oggi ricordati nell'inno ufficiale universitario, Di canti di gioia.

Storia

(FR)
« C'est à Padoue que j'ai commencé à voir la vie à la vénitienne, les femmes dans les cafés. L'excellent restaurateur Pedrocchi, le meilleur d'Italie. »
(IT)
« È a Padova che ho cominciato a vedere la vita alla maniera veneziana, con le donne sedute nei caffè. L'eccellente ristoratore Pedrocchi, il migliore d'Italia. »
(Stendhal)



Tra Settecento e Ottocento il consumo del caffè si è diffuso anche in Italia e si è andata così affermando la tradizione del caffè come circolo borghese e come punto d'incontro aperto, in contrapposizione alla dimensione privata dei salotti nobili. A Padova la presenza aggiuntiva di oltre tremila persone tra studenti, commercianti e militari fece sì che, più che in altri centri cittadini, si sviluppasse questo tipo di attività.
In questo contesto, nel 1772 il bergamasco Francesco Pedrocchi apre una fortunata "bottega del caffè" in un punto strategico di Padova, a poca distanza dall'Università, dal Municipio, dai mercati, dal teatro e dalla piazza dei Noli (oggi Piazza Garibaldi), da cui partivano diligenze per le città vicine, e dall'Ufficio delle Poste (oggi sede di una banca).
Il figlio Antonio, ereditata la fiorente attività paterna nel 1800, dimostra subito capacità imprenditoriali decidendo di investire i guadagni nell'acquisto dei locali contigui al suo e, nel giro di circa 20 anni, si ritrova proprietario dell'intero isolato, un'area pressappoco triangolare delimitata a est dalla via della Garzeria (oggi via VIII Febbraio), a ovest da via della Pescheria Vecchia (oggi vicolo Pedrocchi) e a nord dall'Oratorio di San Giobbe (oggi piazzetta Pedrocchi).
Il 16 agosto 1826 Antonio Pedrocchi presenta alle autorità comunali il progetto per la costruzione di uno stabilimento, comprendente locali destinati alla torrefazione, alla preparazione del caffè, alla "conserva del ghiaccio" e alla mescita delle bevande. Prima di questo cantiere, Pedrocchi aveva incaricato un altro tecnico, Giuseppe Bisacco, di eseguire i lavori di demolizione dell'intero isolato e di costruire un edificio ma, insoddisfatto del risultato, aveva richiesto a Giuseppe Jappelli, ingegnere e architetto già di fama europea e esponente di spicco della borghesia cittadina che frequentava il caffè, di riprogettare il complesso dandogli un'impronta elegante e unica.
Nonostante le difficoltà determinate dal dover disegnare su una pianta irregolare e dal dover coordinare facciate spazialmente diverse, Jappelli fu in grado di progettare un edificio eclettico che trova la sua unità nell'impianto di stile neoclassico. L'illustre veneziano volle trasferire in architettura la sua visione laica e illuminista della società, creando quello che poi diverrà uno degli edifici-simbolo della città di Padova.
Il piano terreno fu ultimato nel 1831, mentre nel 1839 venne realizzato il corpo aggiunto in stile neogotico denominato "Pedrocchino", destinato ad accogliere l'offelleria (pasticceria). In occasione del "IV Congresso degli scienziati italiani" (evento dal titolo significativo, visto che Padova si trovava ancora sotto la dominazione asburgica), nel 1842 si inaugurarono le sale del piano superiore che, secondo il gusto storicizzante dell'epoca, erano state decorate in stili diversi, creando un singolare percorso attraverso le civiltà dell'uomo.
Per la loro realizzazione Jappelli si avvalse della collaborazione dell'ingegnere veronese Bartolomeo Franceschini e di numerosi decoratori, tra cui il romano Giuseppe Petrelli, al quale si deve la fusione delle balaustre delle terrazze con i grifi, i bellunesi Giovanni De Min, ideatore della sala greca, Ippolito Caffi della sala romana e Pietro Paoletti della sala pompeiana (o "ercolana"), il padovano Vincenzo Gazzotto, pittore del dipinto sul soffitto della sala rinascimentale.
Le sale del piano superiore erano destinate a incontri, convegni, feste e spettacoli e il loro utilizzo veniva concesso ad associazioni pubbliche e private che, a vario titolo, potevano organizzare eventi.
Antonio Pedrocchi si spense il 22 gennaio 1852. Animato dalla volontà di lasciare la gestione del suo caffè a una persona di fiducia, aveva adottato Domenico Cappellato, il figlio di un suo garzone, che alla morte del padre putativo si impegnò nel dare continuità all'impresa ricevuta in eredità, pur cedendo in gestione le varie sezioni dello stabilimento.
Alla morte di Cappellato, avvenuta nel 1891, il caffè passa al Comune di Padova. In un testamento stilato alcuni mesi prima, Cappellato lasciava infatti lo stabilimento ai suoi concittadini:
« Faccio obbligo solenne e imperituro al Comune di Padova di conservare in perpetuo, oltre la proprietà, l'uso dello Stabilimento come trovasi attualmente, cercando di promuovere e sviluppare tutti quei miglioramenti che verranno portati dal progresso dei tempi mettendolo al livello di questi e nulla tralasciando onde nel suo genere possa mantenere il primato in Italia »
(Dal testamento di Domenico Cappellato Pedrocchi)



La decadenza

Un inevitabile degrado dovuto alle difficoltà determinate dalla grande guerra caratterizzerà il caffè negli anni tra il 1915 e il 1924. In quest'ultima data hanno inizio i lavori di restauro del "Pedrocchino", che si protrarranno fino al 1927. Negli anni successivi va purtroppo dispersa gran parte degli arredi originari disegnati dallo stesso Jappelli, che verranno sostituiti via via nell'epoca fascista.
Dopo la seconda guerra mondiale, con il progetto dell'architetto Angelo Pisani che si impone contro quello di Carlo Scarpa, mai preso in considerazione dall'amministrazione comunale, si avvia un nuovo restauro che ridefinisce i vani affacciati sul vicolo posteriore, trasforma lo stesso vicolo in una galleria coperta da vetrocemento e ricava alcuni negozi, un posto telefonico pubblico e una fontana in bronzo sventrando parte dell'Offelleria, del Ristoratore e demolendo la Sala del Biliardo.
Nonostante le proteste di molti cittadini e le perplessità della Soprintendenza ai monumenti, viene sostituito lo storico bancone in marmo con banchi di foggia moderna, viene installata una fontana luminosa al neon e le carte geografiche della sala centrale, caratterizzate dalla rappresentazione rovesciata delle terre emerse (curiosamente il sud viene rappresentato in alto) vengono sostituite da specchi.
Per buona parte degli anni ottanta e novanta il Pedrocchi rimane chiuso per difficoltà tra i titolari della gestione e il Comune; nel 1994 viene finalmente deciso il recupero dei locali e all'architetto Umberto Riva e ai collaboratori M. Macchietto, P. Bovini e M. Manfredi viene affidato il compito di rimediare ai danni provocati dal devastante restauro Pisani degli anni cinquanta e di riportare all'antico splendore i locali dello storico caffè.
Dopo l'esecuzione del primo stralcio di lavori, il 22 dicembre 1998 il caffè viene restituito ai cittadini di Padova.


Architettura

Il Caffè Pedrocchi si configura come un edificio di pianta approssimativamente triangolare, paragonata a un clavicembalo. La facciata principale si presenta con un alto basamento in bugnato liscio, guarda verso est e si sviluppa lungo la via VIII Febbraio; su di essa si affacciano le tre sale principali del piano terra: la Sala Bianca, la Sala Rossa e la Sala Verde, così chiamate dal colore delle tappezzerie realizzate dopo l'Unità d'Italia nel 1861.
La Sala Rossa è quella centrale, divisa in tre spazi, è la più grande e vede attualmente ripristinato il bancone scanalato di marmo così come progettato da Jappelli. La Sala Verde, caratterizzata da un grande specchio posto sopra al camino, era per tradizione destinata a chi voleva accomodarsi e leggere i quotidiani senza obbligo di consumare. È stata pertanto ritrovo preferito degli studenti squattrinati e a Padova si fa risalire a questa consuetudine il modo di dire essere al verde. La Sala Bianca, si affaccia verso il Bo, conserva in una parete il foro di un proiettile sparato nel 1848 dai soldati austro-ungarici contro gli studenti in rivolta contro la dominazione asburgica. Inoltre, è anche nota come ambientazione scelta da Stendhal per il suo romanzo "La certosa di Parma". Completa il piano terra la Sala Ottagona o della Borsa, dall'arredo non troppo raffinato, destinata in origine alle contrattazioni commerciali.
A sud il caffè termina con una loggia sostenuta da colonne doriche e affiancata dal corpo neogotico del cosiddetto "Pedrocchino". Quest'ultimo, è costituito da una torretta a base ottagonale che rappresenta una fonte di luce, grazie alle finestre disposte su ogni lato. Inoltre, al suo interno è presente una scala a chiocciola. Due logge nello stesso stile si trovano dislocate sul lato nord, e davanti a queste si trovano quattro leoni in pietra scolpiti dal Petrelli, che imitano quelli in basalto che ornano la cordonata del Campidoglio a Roma.
Tra le due logge del lato nord si trova una terrazza delimitata da colonne corinzie.
Il piano superiore o "piano nobile" è articolato in dieci sale, ciascuna decorata con uno stile diverso:
  1. Etrusca
  2. Greca
  3. Romana: caratterizzata da una pianta circolare;
  4. Stanzino barocco
  5. Rinascimentale
  6. Gotica-medievale
  7. Ercolana o pompeiana: tipici sono i decori che ricordano le ville romane;
  8. Rossini: è la stanza più grande, infatti riproduce la stessa planimetria della sala Rossa del piano terra. In questa stanza, dedicata a Rossini e Napoleone, possiamo osservare degli stucchi a tema musicale che ne rappresentano simbolicamente la destinazione d'uso.
  9. Moresca: molto piccola;
  10. Egizia: ai quattro angoli della stanza troviamo dei piedistalli che sorreggono una finta trabeazione, e diversi attributi che ci rimandano alla cultura egiziana.
La chiave di lettura di questo apparato decorativo può essere quella romantica di rivisitazione nostalgica degli stili del passato. Non è esclusa però una chiave esoterica o massonica (Jappelli era massone). I simboli egizi precedono la decifrazione della scrittura geroglifica da parte di Champollion e sono piuttosto un omaggio al grande esploratore padovano Giovanni Battista Belzoni, che aveva scoperto numerosi monumenti egizi e di cui Jappelli aveva conoscenza diretta.
Presso il piano nobile dello Stabilimento si trova il Museo del Risorgimento e dell'età contemporanea, dove sono conservati tra gli altri i ritratti del fondatore Antonio Pedrocchi e del suo successore Domenico Cappellato Pedrocchi, entrambi opera di Achille Astolfi.

Cosa rende il cibo britannico così disgustoso per molte persone?

0 commenti

Fatta la doverosa premessa che non impazzisco per la cucina britannica, devo dire che il cibo britannico è reso disgustoso al giudizio da chi pone le sue critiche dettate dal proprio provincialismo.

La cucina tradizione della cucina britannica include parecchi piatti più che degni. Domandandomi se chi la trova disgustosa li abbia provati?

Cornish Pasty, piccole tasche ripiene di carne di manzo o di agnello con spezie.



Toad-in-the-hole, pasticcio di salsicce immerse nello Yorkshire pudding



I Pie, cioè torte salate con ripieni di carne o di pesce. Alcuni molto tipici sono lo Shepherd's pie, ripieno di carne di montone o pecora e patate:



O il Pork pie, ripieno di carne di maiale in gelatina:



E, come dolci, gli Scones, panini dolci morbidi da riempire di marmellata e/o panna:




Mimolette

0 commenti

Risultati immagini per Mimolette


La mimolette è un formaggio francese prodotto nella regione di Lilla. Il formaggio è prodotto con latte crudo di vacca.
Prodotto anche in Belgio e Paesi Bassi, è noto in fiammingo come commissiekaas.
Il colore arancione tipico di questo formaggio proviene da un colorante naturale (annatto) ricavato dalla pianta Bixa orellana. Le asperità della crosta derivano dalla presenza, favorita dal casaro in sede di produzione, di acari del formaggio (Tyroglyphus casei).
Il miglior periodo di degustazione va da aprile a settembre, dopo una maturazione variabile tra sei settimane e due anni. Il gusto della Mimolette giovane assomiglia a quello del Parmigiano. A seconda dell'invecchiamento si trovano sul mercato forme giovani (3 mesi), a medio invecchiamento (demi-vieille, 6 mesi), invecchiate (12 mesi) e stravecchie (24 mesi).

Banitsa

0 commenti

Risultati immagini per Banitsa


La banitsa (in bulgaro: баница, spesso viene traslitterato anche come banica o banitza) è un piatto tradizionale della Bulgaria.
La banitsa viene preparata appoggiando una mistura di uova sbattute e pezzi di sìrene (un formaggio bulgaro, simile a feta) tra dei fogli di pasta e cuocendola al forno.
Per quanto riguarda gli ingredienti, esistono molte variazioni: possono infatti essere utilizzati spinaci, zucca, ecc.
Questo piatto spesso viene servito con ayran o boza. La Banitsa viene servita anche a colazione accompagnata da yogurt.


Camerieri e chef spiegano come si vendicano dei clienti stronzi

0 commenti

Risultati immagini per Camerieri e chef spiegano come si vendicano dei clienti stronzi



Un corso avanzato di gestione della rabbia è il minimo che si possa richiedere a chi si appresta a lavorare a contatto col pubblico, e questo è tanto più vero nella ristorazione. Perché basta un cliente particolarmente stronzo a rovinare tutto il turno. La strategia di coping usata più frequentemente da camerieri, baristi e chef funziona più o meno così: sorridi al cliente spregevole di turno, corri in cucina o sul retro del locale, impreca finché non ti senti un pochino meglio, lamentati coi colleghi finché non ti senti decisamente meglio e poi torna a lavorare e consegnare una performance da Oscar.
Eppure, anche i camerieri più calmi e in pace col mondo hanno i loro momenti di rabbia—rabbia che spesso si tramuta in sete di vendetta. I nostri colleghi olandesi hanno chiesto a quattro persone che lavorano nella ristorazione di raccontare dei modi peggiori (o migliori, a seconda della prospettiva) con cui si sono vendicati di clienti stronzi. La morale della favola è: a meno che non vogliate ritrovarvi una birra aromatizzata allo scopino del water, pensateci due volte prima di comportarvi come serpi al bancone di un bar.

RICK, CAMERIERE
Al ristorante avevamo un cliente tanto assiduo quanto insopportabile, una donna semplicemente patetica. Si lamentava sempre per cose a caso, ma invece di dircelo in faccia e darci la possibilità di risolvere l'eventuale problema scattava foto di quello che non le andava bene e poi scriveva mail infuocate all'indirizzo del ristorante. A controllarlo era il nostro capo, che a sua volta se la prendeva con noi.
La signora era intollerante al glutine, ma quando ordinava il suo veggie burger (sì, era anche vegetariana) richiedeva immancabilmente anche il pane. A nulla serviva farle notare che conteneva glutine: ci assicurava che lo avrebbe lasciato—salvo poi mangiarlo e lagnarsene.
Viste le sue lamentele incessanti, una volta abbiamo deciso di prepararle un hamburger di carne invece del solito hamburger vegetariano, piazzarlo sul pane e aspettare che i succhi della carne lo impregnassero per bene. Un attimo prima di portarlo in tavola abbiamo sostituito l'hamburger di carne con quello vegetariano. Non ha notato niente. Quanto a me, è stata una vendetta piuttosto soddisfacente, anche se mi sono sentito un po' in colpa.

SABRI, BARISTA
Col tempo ho imparato a fregarmene dei clienti sgradevoli. Il mio collega al bancone invece aveva l'abitudine di vendicarsi mettendo meno alcol nei drink delle persone che non gli piacevano, arrivando anche a dimezzare le quantità richieste.
Ma c'era una cosa di cui non riuscivo a fregarmene e che odiavo molto più di ogni cliente stronzo: lo chef. I piatti che preparava per lo staff erano disgustosi, speziatissimi e unti, e questo per il solo piacere di renderci la vita impossibile. In più era una persona estremamente arrogante, il classico chef che non poteva considerarsi soddisfatto finché non aveva preso in giro, rimproverato o infamato ogni singolo dipendente del locale. Mi mandava in escandescenze, e in due occasioni le cose sono sfuggite di mano. Abbiamo litigato e siamo quasi finiti alle mani. Un'altra volta mi ha servito di nascosto del maiale pur sapendo che non lo mangio.
Da quel momento ho deciso di fare sul serio. Uno dei miei compiti era portare da bere alla cucina una volta finito il loro turno, ed è da lì che è partita la mia vendetta. Sapevo che lo scopino del wc era perennemente sporco perché non veniva mai pulito, così ho deciso di dare un tocco in più alla birra dello chef passandolo ogni singola volta sul boccale della sua prima bevuta della serata. Beveva così in fretta che era difficile se ne accorgesse.
So che non avrei dovuto farlo, ma lui ci serviva la merda, quindi ho ricambiato volentieri.

DIMI, CHEF
Una volta un collega si è beccato una multa totalmente immotivata da due vigili che frequentavano il nostro ristorante. Qualche giorno dopo i due sono venuti a pranzo a prendersi un panino, e per vendicarsi lui ha scaldato il pane e prima di mettere il resto degli ingredienti ci ha strofinato sopra il glande. Altre volte, invece, mi è capitato di veder buttare per terra gli hamburger prima di metterli sul pane. Ma io credo nel karma, e di cose del genere non ne faccio.

LAILA, EX CAMERIERA
A 18 anni ho lavorato per un po' in una sala da tè. Un giorno tra i clienti ho notato la nuova ragazza del mio ex, e quando ho capito che avrei dovuto servirla io mi sono sentita minuscola. Mi sembrava che in quel momento avesse ancora più potere su di me, con quel sorrisetto che mi ha lanciato dopo aver ordinato un cocktail che si chiamava—me lo ricordo ancora—Jungle Juice.
Quando sono andata a portare le ordinazioni ho detto alla mia collega che avrei proprio voluto sputare nel bicchiere di quella ragazza. E lei, senza troppi problemi, ha raccolto un po' di saliva e dalla sua bocca l'ha fatta cadere direttamente nel blender insieme a tutti gli altri ingredienti. Eravamo sul retro, quindi nessuno ci ha viste. Quando ha versato il tutto nel bicchiere, sulla superficie si è formata una piccola schiuma bianca.
Ricordo di aver mescolato come una pazza prima di servirlo, per assicurarmi che non ci fosse nulla di sospetto. Guardarla bere mi ha fatta sentire meglio, tanto che poi ne abbiamo riso per settimane. Qualche mese dopo, tra l'altro, lei e il mio ex hanno rotto.


Maiale mu shu

0 commenti

Risultati immagini per Maiale mu shu


Il maiale mu shu (a seconda del dialetto, scritto anche mù xũ rōu, mu shi, mu shu o mu xu, cinese tradizionale: 木須肉; cinese semplificato: 木须肉; pinyin: mù xū ròu) è un piatto tipico della cucina del nord della Cina, che ha avuto origine nella provincia dello Shandong e diffuso soprattutto nella cucina pechinese. Negli anni '60 del Novecento il piatto è diventato anche uno dei più popolari della cucina cinese negli Stati Uniti d'America, dove è stato portato dai migranti cinesi.

Descrizione

Stile cinese

Nella sua versione cinese tradizionale, il maiale mu shu è composto da carne di maiale tagliata a striscioline o a listarelle e uova strapazzate, saltate al wok in olio di sesamo o di arachidi, con l'aggiunta di funghi orecchio di Giuda tagliati sottili e germogli di emerocallide. In alcune varianti, vi si possono aggiungere anche germogli di bambù tagliati sottili. Il piatto viene condito con zenzero, aglio, cipolletta, salsa di soia e vino di riso (di solito, della qualità conosciuta come huangjiu).

Stile cinese americano

Negli Stati Uniti, questo piatto è comparso nelle cucine dei ristoranti cinesi di New York City e Washington, D.C. intorno al 1966. All'epoca, a causa della scarsa reperibilità di ingredienti come i germogli di emerocallide e i funghi orecchio di Giuda in America, venne introdotta una ricetta modificata che divenne presto predominante. Questa ricetta include tra gli ingredienti principali le uova strapazzate e il cavolo cappuccio, accompagnati da carote, una minima quantità di germogli di emerocallide e funghi orecchio di Giuda, cipolletta e germogli di soia. A volte vengono aggiunti anche funghi shiitake, cavolo napa, taccole, peperoni, cipolle e sedano, mentre il vino di riso huangjiu è sostituito dallo sherry secco. Tutti i vegetali, ad eccezione dei germogli di emerocallide e dei germogli di soia, vengono tagliati a strisce molto sottili prima della cottura.

Varianti

Oltre agli ingredienti tradizionali, e a quelli aggiunti nella cucina statunitense, esistono altri tipi di varianti che riguardano stili personali di alcuni chef o ristoranti. Sia nella versione cinese, sia in quella americanizzata, possono essere aggiunti anche sale, zucchero, glutammato monosodico, amido di mais e pepe bianco macinato. Nei ristoranti meno autentici del nord America, gli ingredienti basilari (funghi orecchio di Giuda e germogli di emerocallide) sono del tutto omessi.
Sebbene la pietanza sia quasi sempre fatta con carne di maiale, lo stesso condimento di base può essere unito ad altri tipi di carne o anche a piatti di frutti di mare. Di solito, in ogni caso, non si mischiano più tipi di carne insieme. Se viene cotta carne di pollo, invece che di maiale, il piatto verrà chiamato pollo mu shu; il nome viene alterato allo stesso modo nelle ricette con gamberi o tofu. Il nome cinese, 木須肉, utilizza il realtà il carattere con il significato di "carne", senza specificare di quale tipo si tratti, tuttavia viene dato per scontato in lingua cinese che si tratti di carne di maiale, poiché è quella più comunemente utilizzata per qualsiasi tipo di pietanza.
Un tipo diverso di cucinare la carne di maiale mu shu si chiama lu, () una parola che ha un significato simile a "salsa". La cottura del lu è accostabile allo stile di cucina occidentale au jus. Il lu, che sia vegetariano o a base di carne, è utilizzato spesso come base per zuppe di noodles, prendendo il nome di noodles dalu.


Portata

Originale

In Cina, di solito, il maiale mu shu viene accompagnato da riso bianco al vapore. Nella variante mu shu lu, servita con salsa, viene spesso accompagnata con spaghetti cinesi e tofu morbido.

Varianti cinesi americane

In America, il maiale mu shu viene servito con l'accompagnamento di salsa hoisin (una salsa agrodolce di prugna cinese) e diverse sottilissime frittelle di farina al vapore utilizzate per avvolgervi dentro la carne, come un involtino. Queste frittelle tonde prendono il nome "pancake mu shu" (caratteri cinesi: 木须饼; pinyin: mù xū bǐng), di báo bǐng (薄饼, letteralmente "pancake sottili") o "pancake mandarini", simili a quelli utilizzati nella portata dell'anatra laccata.
La carne di maiale viene quindi avvolta nelle frittelline su cui sarà stata spalmata un po' di salsa hoisin, talvolta dal cliente stesso, sebbene in alcuni ristoranti sia compito dei camerieri. L'involtino viene poi mangiato con le mani.

Etimologia

Per chiarire il significato del nome del piatto, esistono due possibili spiegazioni principali.
Secondo la prima, il nome originale della pietanza è Muxi Rou 木犀肉 (pinyin: mù xī ròu), il cui l'ultimo carattere, (ròu), ha il significato di "carne". Le prime due sillabe, 木犀 (mù xī), indicano il piccolo albero ornamentale conosciuto come Osmanto dolce, che produce boccioli piccoli e profumati di colore giallo o bianco. Sembra che i boccioli dell'albero ricordino l'aspetto delle uova strapazzate nei piatti cinesi, cosicché 木犀 (mù xī) ha iniziato ad indicare tale ingrediente. Inoltre, durante le celebrazioni annuali per l'anniversario della morte di Confucio, in Cina è proibito utilizzare la parola cinese per "uovo" (; pinyin: dàn), poiché viene usata in un certo numero di insulti. Per questo motivo, la parola dàn viene tradizionalmente sostituita con un eufemismo, e "mù xī" è uno di questi. Il primo carattere, (mù), d'altra parte è anche l'abbreviazione di 木耳 (mù'ěr, che significa "fungo orecchio d'albero").
La seconda variante del nome del piatto, 木须肉 (pinyin: mù xū ròu), è più popolare nella cucina cinese-americana. Il secondo carattere, (xū), ha il significato di "barba (del granturco)", tuttavia vi è aggiunto un componente determinativo aggiuntivo per distinguerlo dagli altri significati dello stesso carattere, per cui viene scritto . Probabilmente, il modo di scrivere 木須肉 (letteralmente: "maiale barba di legno") in America è semplicemente il risultato di un errore tipografico, in cui è stato scritto un carattere della stessa pronuncia, e poi è diventato comune in questo modo.
Esistono due spiegazioni ulteriori per il significato del nome della pietanza, tuttavia sono probabilmente degli esempi di un errore linguistico conosciuto come paraetimologia. Per citarli, comunque, esiste un distretto di Pechino che ha lo stesso nome del piatto, Muxi Di (木樨地), che ospita anche una stazione della metropolitana (木樨地站). Il piatto, a volte, è anche chiamato 苜蓿肉 (mùsù ròu), cioè "carne con erba medica".

Caffè Martini

0 commenti

Risultati immagini per vecchio Caffè Martini


Ai tavolini del vecchio Caffè Martini - che era in un palazzetto accanto all'edificio del Teatro alla Scala di Milano - si diceva che arrivasse l'eco dei battimani e dei fischi della Scala. Ai suoi tavolini sedeva un pubblico eterogeneo: cantanti e attrezzisti, scrittori e ballerine, impresari e musicisti. Era frequentato dal librettista Francesco Maria Piave, dal coreografo Giuseppe Rota, dal musicista Paolo Giorza.
La sua storia iniziò nel 1832, quando Giovanni Martini rilevò il vecchio Caffè del Teatro, rimettendolo a nuovo. L'esercizio passò nel 1843 al Cuzzi e al Brambilla che nel 1857 lo cedettero a Vincenzo Dujardin che era originario di Lione. Il Caffè Martini aveva le sale al pianterreno e, al mezzanino, locali per il biliardo e salottini riservati. Era pavimentato con il parquet, fornito di stufe, di deposito di ombrelli e bastoni, di cannocchiali e tabarri: questi servizi erano gratis, tranne in tempo di Carnevale, quando si chiedeva agli avventori una piccola mancia. Durante le Cinque giornate di Milano la barricata davanti alla Scala fu realizzata con attrezzerie e poltrone del teatro e con tavolini e sedie del Caffè Martini.
A metà Ottocento, tra gli avventori c'era un gruppo solidale, detto delle Cinque Effe, che era composto dallo scrittore Leone Fortis, dal critico musicale Filippo Filippi e da tre ballerine della Scala il cui nome iniziava per F. Al caffè si sedeva spesso Giuseppe Verdi. Il suicidio dello scrittore scapigliato Temistocle Prola, che sul settimanale letterario e satirico Il Pungolo si firmava Antar, arrivò durante un veglione della Scala, in mezzo a un galoppe del musicista Paolo Giorza, gelando il sorriso di Cletto Arrighi. La funerea notizia rimbalzò nei locali del Caffè Martini: era il primo lutto tra gli scapigliati.
In visita a Milano, lo scrittore e giornalista Carlo Collodi, seduto al Caffè Martini, seppe che il locale sarebbe presto scomparso: il vecchio Caffè Martini infatti chiuse i battenti perché il Comune di Milano aveva deciso di allargare piazza della Scala, demolendo gli edifici tra la Scala e Palazzo Marino; quindi il palazzetto dove sorgeva il caffè fu abbattuto. Anche Ippolito Nievo si occupò del progetto di allargare piazza della Scala, dimostrandosi dubbioso sulla necessità di intraprendere questi lavori. Un vecchio cameriere del Martini, Angelo Turretta, riaprì il caffè nel palazzo De Marchi, che era di fronte, in piazza della Scala 10; ma l'atmosfera non era più quella. Il caffè Martini fu il primo caffè milanese ad essere illuminato con luce elettrica, nel 1883. La Marchesa Colombi vi ambientò un episodio di un romanzo. Igino Ugo Tarchetti ha una pagina sul Caffè Martini. Il palazzo De Marchi fu demolito nel 1905 e al suo posto, tra il 1906 e il 1911, sorse il nuovo stabile sede della Banca Commerciale Italiana su progetto di Luca Beltrami.
I letterati che frequentano vecchio Caffè Martini alla Scala, nel 1856, sono ritratti in un disegno, pubblicato su doppia pagina affiancata sul Panorama Universale, il 13 settembre 1856. Alcuni sono seduti, altri sono in piedi a chiacchierare. Immancabili, i sigari in bocca. Non sono presenti le signore. Due riviste umoristiche e letterarie si contendevano a Milano i favori del pubblico: Il Pungolo di Leone Fortis e L'Uomo di Pietra di Antonio Ghislanzoni. Ma alcuni giornalisti e scrittori - a volte senza firmare, a volte cambiando lo pseudonimo - collaboravano sia all'una, sia all'altra rivista. Lo scopo era uno solo: fare un po' di guerra all'Austria. I letterati ritratti in quel disegno satirico del 1856 sono (da sinistra): i due fratelli Ignazio e Cesare Cantù, il poeta e traduttore dal tedesco Andrea Maffei, Ippolito Nievo che collaborava alle riviste milanesi "Il Pungolo" e "L'Uomo di Pietra", il commediografo Paulo Fambri, il traduttore dal francese Luigi Masieri, Leone Fortis ideatore della rivista "Il Pungolo" e per un periodo direttore artistico della Scala, Vittorio Salmini commediografo, Luigi Gualtieri, Carlo Righetti meglio noto come "Cletto Arrighi", il romanziere scapigliato Giuseppe Rovani, Cesare Betteloni poeta del Lago di Garda, Tullio Dandolo, Antonio Ghislanzoni librettista di Verdi, Vittore Ottolini, Carlo Baravalle e il critico musicale Filippo Filippi che si firmava "Pippo Pippi".

 
  • 1437 International food © 2012 | Designed by Rumah Dijual, in collaboration with Web Hosting , Blogger Templates and WP Themes