Bacalao al pil-pil

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Il bacalao al pil-pil ("baccalà al pil-pil") è un piatto tipico spagnolo a base di pesce. È originario delle province basche ed è spesso accompagnato da una salsa bianca.

Derby alla salvia

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Il Derby alla salvia ((EN) sage Derby) è un formaggio Derby inglese a pasta dura prodotto nel Derbyshire e aromatizzato alla salvia. Il colore verde del formaggio è dato infatti dal contenuto di salvia e altre erbe, come prezzemolo, spinaci e foglie di calendula, aggiunte in fase di lavorazione per ottenere l'effetto marmorizzato e il sapore leggermente mentato tipico del Derby alla salvia.

Storia

Le prime produzioni di Derby alla salvia risalgono al diciassettesimo secolo in Inghilterra, quando veniva preparato solo durante le festività come il Natale, prima di diventare un prodotto disponibile tutto l'anno.

Qual è il tipo di pasta più raro e difficile da preparare?

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Il nome della pasta più rara e difficile da realizzare è orgogliosamente sarda e si chiama Su Filindeu che significa (I fili di Dio).
Si tratta della pasta più complessa da produrre, e non è affatto difficile crederlo...
Solo tre donne appartenenti ad una sola famiglia sarda sanno come prepararle. Vivono tutte in un modesto appartamento nella città di Nuoro:
  • Paola Abraini (62 anni) si sveglia ogni giorno alle 7 del mattino per iniziare a preparare il su filindeu
  • la nipote di Abraini e sua cognata vivono entrambe in questa città sperduta aggrappata alle pendici del Monte Ortobene.
Nessuno ricorda come o perché a Nuoro si iniziò a preparare la pasta su filindeu ma per più di 300 anni la ricetta e la tecnica sono state tramandate solo fra i membri donna della famiglia Abraini - ognuna delle quali ha custodito gelosamente i segreti prima di insegnarli alle proprie figlie.

Il caso Barilla
Diversi anni fa, un team di ingegneri della pasta Barilla è venuto a vedere se potevano riprodurre la sua tecnica con una macchina. Non ci sono riusciti.

Slow Food e cuochi famosi alle prese con la Su Filindeu…
Dopo aver sentito le voci su una pasta sarda segreta, Carlo Petrini, presidente di Slow Food International, ha visitato la famiglia questa primavera.
Anche il famoso chef britannico, Jamie Oliver, si è fermato per chiedere alla signora Abraini se poteva insegnargli come preparare il piatto. Dopo aver fallito per due ore, sembra aver alzato le mani e detto: "Faccio pasta da 20 anni e non ho mai visto niente del genere".


"Molte persone dicono che ho un segreto che non voglio rivelare", dice spesso la signora Abraini sorridendo, “Ma il segreto è proprio di fronte a te. È nelle mie mani ".


Ingredienti
Ci sono solo tre ingredienti: grano di semola, acqua e sale

Preparazione (almeno come spiegato dalle donne)
Il su filindeu si ottiene tirando e piegando la pasta di semola in 256 fili perfettamente uniformi con la punta delle dita, quindi allungando i fili sottili come aghi in diagonale attraverso una cornice circolare in un intricato schema a tre strati.
Si lavora a fondo la pasta fino a quando non raggiunge una consistenza che ricorda l'argilla da modellare, quindi si deve dividere l'impasto in sezioni più piccole e continuare a lavorarlo in una forma cilindrica arrotolata.
Poi arriva la parte più difficile, un processo chiamato, "capire l'impasto con le mani".
Quando si "sente" che deve essere più elastica, bisogna immergere le dita in una ciotola di acqua salata. Quando ha bisogno di più umidità, bisogna immergerla in una ciotola separata di acqua normale.


Secondo Paola: "Possono volerci anni per capire. È come un gioco con le tue mani. Ma una volta capito, allora la magia accade".

L'associazione con il pellegrinaggio di San Francesco
È così difficile e richiede così tanto tempo per la preparazione che negli ultimi 200 anni il piatto sacro è stato servito solo a fedeli che completano un pellegrinaggio di 33 km a piedi o a cavallo da Nuoro al villaggio di Lula per la festa semestrale di San Francesco.


Eredità culturale
La domanda che tutti noi ci poniamo ora è: questa preziosissima ricetta continuerà a essere tramandata in futuro?
Dopo più di 300 anni dello stesso albero genealogico matrilineare, questi fili di Dio potrebbero aver bisogno di un miracolo per sopravvivere alle generazioni future.
Solo una delle due figlie di Paola conosce la tecnica di base ma sembra non avere né la passione né la pazienza di sua madre. Nessuna delle figlie, inoltre, possiede figli che vorrebbero o potrebbero imparare.
Le altre due donne della famiglia che continuano la tradizione hanno ormai entrambi cinquant'anni e devono ancora trovare validi successori che si offrano volontari per il difficile apprendimento.


Spero che riusciremo a conservare e tramandare questa ricetta perché non è solo una forma d'arte culinaria, ma anche un pezzo di identità culturale.

Dove assaporare la Su Filindeu
Se sei in Sardegna dall'1 al 9 maggio o dall'1 al 4 ottobre, segui la lunga fila di pellegrini che portano alla chiesa di San Francesco fuori Lula. Altrimenti, provalo in questi tre ristoranti:
  • Trascorri la notte all'Agriturismo Testone di Sebastiano Secchi, o fai un salto per cena e assapora quella che viene considerata la migliore interpretazione dell'isola della pasta su filindeu, servita in brodo di montone.
  • Al Rifugio nel centro di Nuoro, il proprietario Silverio fa da padrone di casa mentre suo figlio Francesco cucina i Su filindeu
  • L'alta società Al Ciusa serve l'unica versione Nuorese della pasta su filindeu nera, che la famiglia Abraini ha inventato appositamente combinandola con il nero di seppia.



Possibile che anche chef famosi e grandi ristoranti rischino di dover chiudere a causa del COVID-19?

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Sembra possibile, sì.
Il primo ad alzare la mano era stato Cracco, sostenendo che piuttosto che mettere barriere di plexiglass nel suo ristorante, avrebbe chiuso. Una dichiarazione che in molti lessero come una provocazione, ma che comunque esprimeva un pensiero diffuso in molti operatori del settore.
E dopo la fine del lockdown, quando si iniziano a fare i conti con l'aspetto economico di questa pandemia, a farsi sentire è stato Alessandro Borghese in un'intervista al Corriere della Sera:
L’assenza dello Stato sta radendo al suolo la ristorazione italiana. Non solo manca sostegno economico a un settore che è il fiore all’occhiello del Paese, ma anche le regole per iniziare a progettare la ripartenza non ci sono. Da quando è iniziato il lockdown ho perso quasi metà degli introiti. Sono venute meno cene private, ben 16 matrimoni, per non parlare degli eventi legati al Salone del Mobile. Ora siamo fermi. È tutto chiuso. E sto anticipando l’assegno della cassa integrazione ai miei 64 collaboratori: non potevo permettere attendessero mesi prima dell’arrivo dei fondi a causa della burocrazia. Ma così non si può resistere a lungo. Un altro mese. Se le cose non si smuovono dovrò decidere cosa fare con il personale, le spese d’affitto e le bollette. Ma è un’evenienza in cui spero di non dovermi trovare. Ho le spalle larghe e saprò affrontare qualsiasi scenario. Così come tanti miei colleghi per cui il ristorante è solo una parte dei guadagni, accanto ad altre attività. Ma penso a quelli che vivono degli incassi di bistrot, trattorie e osterie, soprattutto in provincia. Sono molto preoccupato per loro… alcuni hanno già chiuso, tanti altri lo stanno per fare. Servirebbero finanziamenti a fondo perduto, anche perché ci vorrà tempo prima che i ristoranti tornino a riempirsi. Mancano appena tre settimane e non ci sono ancora le regole d’ingaggio, anche solo per capire quanto costerà far ripartire le attività. Qualche esempio? Sanificare un locale da 300 metri quadrati costa tra i mille e i 3 mila euro. Ogni quanto sarà necessario farlo? E poi, come dovranno essere allestiti i locali? Non saperlo rende impossibile pianificare e non si potrà improvvisare, ne va della salute dei clienti e dei lavoratori.


Il problema è evidente e molto democratico, affligge i piccoli e i grandi, anche se ovviamente le ricadute su chi ha le spalle larghe possono essere ammortizzate meglio.
Però una domanda i grandi se la stanno facendo: quanto sarà disposta la gente a venire in un ristorante di lusso con mascherine e plexiglass? Quanto saremo disposti a cenare in una stanza guardandoci sempre intorno, sobbalzando ad ogni colpo di tosse? E non è un problema solo economico, ma anche di predisposizione.


Dopo il COVID-19 fino a che punto è ancora conveniente riaprire per un bar o un ristorante?

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Ne sto parlando già da un po' di tempo con mio cognato (che ha un bar) ed un vicino di casa (che ha un bar). Ed entrambi mi dicono che la riapertura sarà un serio problema e che stanno cercando di capire se converrà loro riaprire.
Perchè il tema del distanziamento sociale e della riduzione delle superfici è un problema enorme e compromette seriamente la tenuta del conto economico. Quindi in centinaia di migliaia di esercenti dovranno porsi questo interrogativo.
E nel mio piccolo penso già che in molti, anche durante il lavoro, preferiranno la macchinetta al salto al bar, con code e distanziamenti che non sai quanto potrebbero allungarti la pausa caffè.
Confcommercio stima la chiusura di 270.000 esercizi, precisando che si tratta di una stima prudenziale. No, non sarà una ripartenza serena…
In rete ho trovato questa lettera, scritta da una coppia che ha deciso dopo 5 anni di chiudere il loro ristorante. Non credo ci sia altro da aggiungere alla puntuale descrizione di una situazione drammatica:
Carissimi amici,
esattamente 2 mesi fa, l'11 marzo, chiudevamo i Tre Musoni in ottemperanza al Dpcm per l'emergenza covid-19. Tantissimi di voi ci hanno chiamato chiedendoci come stavamo affrontando la situazione e le prospettive per il locale: nelle righe che seguono rispondiamo mettendovi al corrente di quanto si sta profilando per l'immediato futuro.

FASE 1
Senza poter prevedere quanto sarebbe durata la quarantena, il giorno successivo, il 12 marzo, abbiamo deciso di lasciare un importo sul conto corrente aziendale sufficiente a pagare per circa tre mesi quei servizi (luce, gas, telefono) assolutamente necessari per il giorno della riapertura, prelevando la differenza da destinare ad un “polmone” per la nostra vita privata (per la spesa, l'affitto di casa, le bollette, la benzina, eccetera); per fortuna non avevamo esposizioni con nessun fornitore, tuttavia abbiamo chiesto al proprietario dei muri, al commercialista, all'assicuratore e ad altri consulenti di seguirci sin quando possibile, perchè di lì a qualche settimana non saremmo più stati in grado di onorare le loro competenze.
Ad oggi, trascorsi 60 giorni, non abbiamo ricevuto 1 euro dallo Stato: ne' i 600 euro del bonus partite iva, ne' la cassa integrazione, ne' il 20% dell'importo dell'affitto dei muri come promesso, neanche i buoni spesa alimentari. Nel frattempo, non avendo altre fonti di reddito, abbiamo intaccato sensibilmente quel polmone iniziale.
E veniamo alla situazione odierna: sinora abbiamo accumulato 14.350,00 euro (quattordicimilatrecentocinquanta) di debiti tra affitti non pagati, imposte del primo trimestre, imposte del secondo trimestre, contributi previdenziali, tasse relative all'esercizio 2019, onorari dei consulenti, eccetera eccetera. Sono gran parte anche se non la totalità delle spese “strutturali” che non possiamo eludere o ridurre.

FASE 2
E' stata indicata la data del 18 maggio o forse del 1 giugno per la riapertura del locale.
Nel frattempo ci è stata concessa la possibilità dell'asporto: senza essere del settore, anche voi potete immaginare che non è possibile replicare gli incassi che facevamo prima della chiusura attraverso l'asporto: per motivi logistici (siamo obbligati ad appoggiarci ad una ditta specializzata nelle consegne), per motivi evidenti (pensate a quante consumazioni al bar e al tavolo non vengono più effettuate), per motivi fiscali (mentre il servizio all'interno del locale ha un'aliquota iva del 10%, per l'asporto l'aliquota sale al 22%, quindi un quinto dell'incasso va allo Stato).
Per rimediare al gap economico, abbiamo la possibilità di accedere ad un credito bancario: i famosi 25.000 euro. In realtà si tratta di un limite massimo, per noi inferiore dato che la cifra è modulata sul bilancio 2019 di ogni azienda. Indipendentemente dall'importo, si tratta di prestito bancario che va restituito, un buco economico che non produce nulla (non è un prestito che chiediamo per eseguire migliorie al locale o acquistare nuove attrezzature, ma servirebbe solo a coprire quelle spese che nonostante l'attività sia ferma continuano a “camminare”, compreso il pagamento delle tasse che non sono state abolite bensì solo posticipate).

LA RIPARTENZA
Ed eccoci al prossimo 18 maggio o 1 giugno: anzitutto non abbiamo a tutt'oggi (11 maggio) un vademecum ufficiale da parte dell'Inail sulle disposizioni e norme tecniche atte a garantire ai clienti (ed a noi stessi) la protezione sanitaria. Come voi, apprendiamo dalla televisione qualche indiscrezione in merito, ma anche nella migliore delle ipotesi ci vedremo ridotta del 50% la capienza del locale rispetto a 60 giorni fa (ma con i costi strutturali invariati). Basterebbe questo dato a farci desistere dal riaprire. Vogliamo però aggiungere che dovremo “investire” almeno 2.000 (duemila) euro per eseguire la sanificazione del locale, acquistare distanziatori, plexiglass, gel disinfettanti, visiere e probabilmente qualche prodotto specifico per sterilizzare bicchieri, piatti e posate.

LO STATO DELL'ARTE
Come potete dedurre, riaprire in queste condizioni significa accumulare ogni mese tra i 3 ed i 4.000 euro di debito. Anche ammesso che l'emergenza covid-19 duri solo ancora 6 mesi, potete calcolare da soli il nostro bilancio al 31 dicembre prossimo.
Oggi dobbiamo arrenderci all'evidenza: la nostra attività non vale più niente: niente poiché non sarà più in grado di abbattere le spese necessarie a mantenerla aperta; niente perché non si presenterà nessun acquirente a rilevarla.
5 anni di lavoro e di vita buttati via.
Tra quelle quattro mura, al banco e tra i tavoli, sono nate e rimarranno le amicizie, vostre e dei tanti simpatizzanti e conoscenti che ci hanno sostenuto in questo lungo percorso, e di questo ringraziamo tutti col cuore: non solo ci avete dato da vivere materialmente, ma moralmente ci avete arricchito: con voi abbiamo dialogato, riso, ragionato, discusso, condiviso emozioni e pensieri, come in una famiglia allargata dove il locale era una casa che accoglieva tutti.
Grazie








Big Mac

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Il Big Mac è il panino più famoso e uno dei più venduti nella catena di fast food McDonald's.
Nacque nel 1968 ad Uniontown, in Pennsylvania, su iniziativa di Jim Delligatti, studente dell'università del Michigan e titolare in franchising di un ristorante McDonald's, morto nel 2016 a 98 anni, era solito mangiarne almeno una volta a settimana. Inizialmente variò spesso nome (venne chiamato "Aristocrat" e "Blue Ribbon Burger"): a "battezzarlo" definitivamente come Big Mac ci pensò la ventunenne Esther Glickstein Rose, che lavorava per la McDonald's a Chicago.
Il Big Mac è globalmente considerato un simbolo del capitalismo americano. The Economist lo ha utilizzato per confrontare su scala globale il costo della vita (Indice Big Mac).

Ingredienti

  • Base del panino
  • Salsa Big Mac*
  • Cipolla tritata disidratata
  • Insalata Iceberg tritata
  • Fetta di formaggio Cheddar fuso
  • Hamburger
  • Tramezzo del panino
  • Salsa (Segreta) Big Mac
  • Cipolla disidratata tritata
  • Insalata Iceberg tritata
  • 2 cetriolini
  • Hamburger
  • Corona del panino
  • Salsa Big Mac: 1 tazza (equivalente a 250 grammi circa) di Miracle Whip (un equivalente della maionese), 1/3 di tazza di vinaigrette (80 ml) (sale olio e aceto), 1/4 di tazza di sottaceti-giardiniera (60 ml), 1 cucchiaio di zucchero, 1 cucchiaino di cipolla tritata, 1 pizzico di pepe.

Valori nutrizionali

Negli Stati Uniti, il Big Mac ha 540 calorie (2.259,36 kJ), 45 grammi di carboidrati e 27 grammi di proteine. In Australia, tuttavia, il panino è più piccolo con 480 calorie (2.010 kJ), 36,2 grammi di carboidrati, ma simili quantitativi di proteine con 25,3 grammi. Caratteristica comune in tutte le nazioni è l'elevata frazione di acidi grassi saturi sul totale dei lipidi, nella versione italiana è di circa il 40% sui grassi totali.
In India, dove la mucca è un animale sacro, il Big Mac è rimpiazzato dal Maharaja Mac, che ha carne di pollo al posto di quella di vitello.

Loco Moco

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Il loco moco è un piatto tipico della cucina hawaiana. Ci sono molte varianti ma di base il loco moco è costituito da riso bianco sormontato da un hamburger, uovo fritto e salsa gravy. Le varianti possono includere peperoncino, pancetta, prosciutto, spam, maiale Kalua, Linguiça, manzo teriyaki, pollo teriyaki, mahi-mahi, gamberi, ostriche e altre carni. Loco Moco è anche il nome di una catena di ristoranti hawaiani che servono piatti tipici in ciotole di riso.

Storia

Il piatto si dice sia stato creato dal "Lincoln Grill" o dal "May's Fountain" due ristoranti di Hilo. La più probabile origine del nome è che "loco" derivi da "locale" e moco sia stato aggiunto in seguito solo perché stava bene per assonanza.

Popolarità

Il piatto è molto popolare nelle Hawaii e viene incluso in molti menù di ristoranti hawaiani sulla terraferma. Il piatto è preparato secondo gli standard della cucina giapponese, riso, rifinito con hamburger, salsa gravy e uova fritte per creare un piatto che pur richiamando un piatto bento non ne richiede i tempi di preparazione.


 
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