Escabeche

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Con escabeche (o scapece) si intende sia il procedimento per la conservazione di alimenti sotto aceto, che il prodotto ottenuto. Il metodo per processare un alimento in escabeche rientra nelle operazioni denominate in cucina come marinatura e la tecnica consiste nel cuocere l'alimento in aceto, olio d'oliva fritto, vino, alloro e pepe in grani. È la trasformazione di un procedimento di origine araba, rielaborato dalla tradizione culinaria spagnola.

Origini

Benché esteso a tutto il bacino del Mediterraneo, di norma l'escabeche viene associato nei ricettari alla cucina spagnola. La parola escabeche, secondo il Dizionario Etimologico di Pascual Corominas, proviene dall'arabo sikbâg, che si riferisce ad un sugo di carne con aceto ed altri ingredienti; è un piatto tipico della Persia, che appare già nel libro Le mille e una notte.
La pronuncia volgare di sikbâg suonava come iskebech, da cui escabeche o escabetx in catalano. La forma castigliana escabeche apparve scritta per la prima volta nel 1525, nel Libro de los Guisados di Ruperto de Nola, edito a Toledo. Questo libro ha anche edizioni precedenti dove apparirebbe la parola escabeche; la prima edizione risale alla metà del secolo XIV, dove appare escabeig a peix fregit. Esiste anche un manoscritto catalano Flors de les medicines, della metà del secolo XV, nel quale appare un riferimento all'escabex.
Un'altra possibile origine fa risalire la parola escabeche al latino esca (prefisso latino per alimento) + alice (uno dei pesci più noti che vengono conservati in aceto salmistrato) o ancora a esca + Apicii (dal celebre gastronomo romano Apicio).
Esistono altre teorie che fanno risalire sempre all'arabo il nome escabeche, modificato dal Siciliano in "scapeci", termine utilizzato per indicare il tonno rosso cotto a vapore.


L'escabeche in Italia

Liguria

Lo "scabeccio" è un piatto di pesce marinato molto comune in tutta la Liguria. Si usano soprattutto triglie, boghe, acciughe e piccoli pesci in genere, fatti marinare per almeno un giorno in aceto, olio, sale, aglio, cipolle, rosmarino. Va servito a temperatura ambiente.

Puglia

La "scapece gallipolina" è un piatto tipico di Gallipoli così preparato: il pesce viene fritto con olio per friggere e dopo fatto marinare a strati alterni con mollica di pane imbevuta con aceto e zafferano in appositi mastelli in legno. La scapece viene venduta in occasione delle festività patronali e fiere.

Molise

In Molise, la "scapece molisana" (scapec, in dialetto molisano) è un tipico piatto usato come antipasto nelle feste popolari e sagre. La scapece molisana viene preparata in particolare con razze o palombi, polpi e calamari infarinnati e poi marinati con aceto, olio, sale e zafferano, a volte viene servita dopo averla lavata in vino bianco per attenuare il sapore dell'aceto.

Sicilia

A Trapani lo "scapece" è tradizionalmente la parte meno pregiata del tonno rosso (dopo la buzzonaglia) che viene conservato sott'olio. È chiamato anche maccarone.

Sardegna

Nella Sardegna meridionale e in particolar modo a Cagliari e dintorni compare in svariate ricette Su Scabecciu, il caratteristico sistema di marinatura con olio, aglio e aceto trovando applicazione in molti piatti di pesce e in un tipico metodo di conservazione delle olive, dette appunto "Olive a Scabecciu".

Abruzzo

In Abruzzo, lo Scapece è un tipico piatto del teatino, in particolare della città di Vasto; esso viene cucinato prima infarinandolo e poi facendolo mantecare con aceto, olio, sale, a cui viene poi aggiunta una bustina di zafferano.

L'escabeche nel mondo

Argentina

L'escabeche è una preparazione per vari tipi di carne in Argentina. Uno tra tutti, per esempio, l'escabecha el carpincho (escabeche di capibara, che è una specie di roditore di circa 70-100 cm di altezza).

Bolivia

L'escabeche è un piatto tipico della Bolivia: si prepara dalla pelle e dalle zampe di maiale cotte oppure dal pollo, di solito accompagnati da cipolle, carote e locoto, mischiati sotto aceto.
Si prepara anche un escabeche di verdure, mettendo locoto, la ulupica o l'abibi (piccoli frutti piccanti), cipolla, carota e cetriolini in una bottiglia di bocca grande e si versa all'interno l'aceto. Si lascia riposare un giorno per poi mangiarlo. In alcune regioni mettono anche olio nel vaso per poi utilizzarlo a gocce sui piatti come condimento.

Cile

In Cile si prepara la cebolla en escabeche (cipolla in escabeche), a base di cipolla valenziana fresca (non fermentata) e con l'aggiunta di aceto rosa.

Cuba

Generalmente si fa l'escabeche con il pesce, tagliato a fette, infarinato e fritto; in seguito si mette a marinare in una miscela in parti uguali di olio di oliva e aceto. Si aggiunge cipolla, peperoncino, olive ripiene con pepe e opzionalmente con capperi; la marinatura deve durare almeno una settimana.

Perù

L'ecabeche è un piatto tipico della cucina peruviana importato dagli spagnoli nell'epoca del Vicereame del Perù.

Uruguay

L'escabeche viene utilizzato di norma per conservare i funghi.

Pecora alla cottora

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La pecora alla cottora o cutturo (nell'aquilano) o pecora ajo cotturo (nella Marsica) o pecora alla callara (nel teramano) è un'antica ricetta tipica della tradizione abruzzese, diffusa soprattutto nella fascia montana, in particolare nell'area marsicana, nella conca aquilana e nella zona dei Monti della Laga.
Il piatto risalirebbe ai tempi della transumanza quando, lungo il cammino dagli Abruzzi al Tavoliere delle Puglie, i pastori consumavano le pecore morte di fatica oppure quelle azzoppate o ferite, cuocendole in appositi paioli di rame o di alluminio, detti appunto cotturo, cotturo o callara, sorretti da un treppiede e un gancio sopra il fuoco vivo di legna. Una seconda teoria fa risalire la tradizione della callara all'atto di gratitudine che veniva fatto dal o dai proprietari delle pecore ai pastori di ritorno dalla Puglia con le greggi.

Descrizione

Qualunque sia la verità sull'origine del piatto, per quanto riguarda la preparazione questa ha subito nel corso del tempo alcune varianti e data anche la vastità delle zone interessate, diverse sono anche le piccole differenze di ricetta da paese a paese, generalmente comunque due sono le versioni principali della ricetta.
In entrambi i casi la preparazione dura dalle quattro alle sei ore, poiché questo permette di fare in modo che la carne della pecora, che è abbastanza dura, arrivi fin quasi a sciogliersi. Durante la cottura che deve essere effettuata con fuoco medio forte e costante, bisogna fare attenzione a schiumare il liquido in cui viene cotta la carne, questo, perché il grasso della pecora durante la cottura tende a sciogliersi e a fare dei grumi.
Essendo un piatto povero e tipico della montagna e dei luoghi aperti, durante la cottura debbono essere inserite tutte le erbe che i pastori trovavano e quindi il timo, l'alloro, il rosmarino, la cipolla, il peperoncino. Ritornando alle due tipologie generali di ricetta, bisogna dire che queste differiscono per un semplice motivo, in un caso viene utilizzato abbondante sugo, leggermente allungato con acqua che si addenserà intorno alla carne e alle erbe durante la cottura, nel secondo invece non si usa il sugo ma viene creato una sorta di brodo.
Tradizione vuole che venga consumata in comune e intorno al fuoco, bagnando il pane (meglio se del giorno prima) nella pentola usata per la cottura, tuttavia oggi nelle varie sagre questo non viene più fatto.
Una sagra molto rinomata e antica, risalente al 1969, si svolge nel periodo estivo a Macchia da Sole di Valle Castellana, all'interno del Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga in provincia di Teramo. Un'altra sagra si tiene annualmente il 14 agosto a Rocca Pia, in provincia dell'Aquila e nello stesso periodo anche nel paese di Antrosano nella Marsica.

Tacchino alla canzanese

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Il tacchino alla canzanese è un piatto tipico abruzzese, diffuso soprattutto nella provincia di Teramo.
Il tacchino viene servito freddo, insieme alla gelatina ottenuta facendo riposare e raffreddando il brodo di cottura dello stesso.
L'animale, pulito, disossato e cucito per evitarne il disfacimento, viene sottoposto ad una lunga cottura in acqua insieme con le ossa frantumate. Al termine il brodo di cottura, filtrato e raffreddato, si trasforma in gelatina.
Questa pietanza è diffusa e commercializzata in tutto il teramano, anche se la ricetta industriale differisce da quella tradizionale.

Spaghetti aglio e olio

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Gli spaghetti aglio e olio (spaghetti aglio e uoglie) sono un piatto tipico della cucina napoletana, facente parte della schiera di ricette cosiddette della cucina piccina partenopea.
Con "aglio e olio" si indica un condimento estremamente semplice per insaporire la pasta, generalmente lunga, in particolare, vermicelli, spaghetti o linguine.
La ricetta, di origine napoletana, vede sostanzialmente una rivisitazione in chiave povera degli spaghetti alle vongole.
Il piatto un tempo era conosciuto anche come "vermicelli alla Borbonica" o anche come "vermicelli con le vongole fujute", quando nella versione in bianco.

Ricetta

Ingredienti

  • 200 g di spaghetti
  • uno spicchio d'aglio
  • mezzo bicchiere d'olio extravergine d'oliva
  • un ciuffo di prezzemolo
  • peperoncino o pepe
  • acciughe o alici salate

La ricetta

Far cuocere la pasta, in abbondante acqua salata, scolare al dente e condire in una zuppiera con un soffritto di aglio olio e peperoncino, infine completare il piatto con prezzemolo tritato. A piacere si possono aggiungere alcune alici salate nella fase di preparazione dell'intingolo.

Spaghetti alle vongole

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Gli spaghetti alle vongole sono un piatto napoletano a base di pasta e vongole. Come molti altri piatti della tradizione partenopea, dello stesso piatto esistono più versioni: rossa e bianca. Esiste perfino la versione senza vongole, che altro non è che spaghetti aglio e olio (aglio e uoglie) detti anche alla borbonica ovvero spaghetti cu 'e vongole fujute.
La pasta può essere vermicelli, spaghetti o linguine e va cotta al dente e poi mantecata in padella nel sauté di vongole, infine si completa il piatto con prezzemolo tritato fresco. I pomodorini, cotti e un po' appassiti, sono opzionali. È possibile condire gli spaghetti con peperoncino.

Vongole veraci

L'ingrediente principale tradizionale dei "veri" spaghetti alle vongole è la vongola verace (Ruditapes decussatus), che non va confusa con la vongola filippina (Ruditapes philippinarum), spesso chiamata verace nei mercati del nord italia, che è ormai quella maggiormente diffusa sul mercato, ed il lupino (Chamelea gallina).

Ricetta

Ingredienti

  • 200 g di spaghetti
  • 400 g di vongole
  • 400 g di pomodori da sugo, nella versione rossa
  • uno spicchio d'aglio
  • mezzo bicchiere d'olio extravergine d'oliva
  • un ciuffo di prezzemolo
  • Peperoncino, sale

Preparazione

Spurgate in acqua corrente le vongole per qualche ora, poi lavarle accuratamente e batterle leggermente, una ad una, con il lato aperto delle valve rivolto in basso (scartate quelle da cui esce anche poca sabbia), per assicurarsi che non contengano residui. Terminata questa operazione metterle in una larga padella in cui si è fatto precedentemente rosolare uno spicchio di aglio e, a piacere, del peperoncino in abbondante olio di oliva, coprire e far saltare il tutto a fuoco vivo fino alla completa apertura delle valve. Nel frattempo far cuocere la pasta in abbondante acqua salata e scolarla al dente. Versate poi la pasta nella padella con il sauté di vongole e mantecate per qualche secondo. Completare con prezzemolo tritato e, volendo, una spolverata di pepe, se non si è usato peperoncino.
Esiste anche una variante: gli spaghetti alle vongole si possono preparare anche in rosso. In questo caso seguire la procedura della versione in bianco, aggiungendo qualche pomodorino tagliato e le vongole dopo aver soffritto l'aglio, lasciar quindi cuocere per 10-15 minuti, terminare mantecando nel sugo ottenuto la pasta. Ricordarsi che nella ricetta tradizionale le vongole non vanno sgusciate.

Spaghetti alla puttanesca

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Gli spaghetti alla puttanesca sono un primo piatto tipico della cucina napoletana, detto anche semplicemente aulive e cchiapparielle (olive e capperi). Sono preparati con un sugo a base di pomodoro, olio d'oliva, aglio, olive nere di Gaeta, capperi e Origano. Dello stesso piatto esiste anche una variante laziale che vede aggiunte le acciughe sotto sale.

Origini

Le prime testimonianze di una pasta condita con una salsa molto simile a quella della Puttanesca, risalgono agli inizi del XIX secolo, quando il Cavalcanti, nel suo manuale Cucina teorico-pratica, propose alcune ricette di cucina popolare napoletana, tra le quali una "puttanesca" ante litteram, definendola "Vermicelli all'oglio con olive capperi ed alici salse". Dopo alcune sporadiche apparizioni in altri ricettari di cucina napoletana, nel 1931 la Guida gastronomica d'Italia, edita dal T.C.I., la elenca tra le specialità gastronomiche della Campania, definendola "Maccheroni alla marinara", anche se la ricetta proposta è indubbiamente quella della moderna puttanesca. Si tratta dunque di uno dei molti casi nei quali il nome con cui è nota oggi la preparazione è successivo alla comparsa della stessa. Nel linguaggio comune infatti, questo particolare condimento per la pasta è noto semplicemente come aulive e cchiapparielle.
Il primo riferimento esplicito agli "spaghetti alla puttanesca" è quello di Raffaele La Capria nel romanzo Ferito a morte (1961), in cui si menzionano gli "spaghetti alla puttanesca come li fanno a Siracusa".

Etimologia

Sul singolare nome esistono varie possibili interpretazioni. Arthur Schwartz riporta quanto segue circa questo piatto:
«... Per quanto riguarda la sua origine etimologica, [il termine puttanesca] è stato oggetto degli sforzi di immaginazione di molti studiosi, che hanno tentato in ogni modo di trovare la soluzione all’enigma. Alcuni dicono che il nome di questa ricetta derivò, all'inizio del secolo, dal proprietario di una casa di appuntamenti nei Quartieri Spagnoli, che era solito rifocillare i propri ospiti con questo piatto, sfruttandone la rapidità e facilità di preparazione. Altri fanno riferimento agli indumenti intimi delle ragazze della casa che, per attirare e allettare l'occhio del cliente, indossavano probabilmente biancheria di ogni tipo, di colori vistosi e ricca di promettenti trasparenze. I tanti colori di questo abbigliamento si ritroverebbero nell'omonima salsa: il verde del prezzemolo, il rosso dei pomodori, il viola scuro delle olive, il grigio-verde dei capperi, la tinta granata dei peperoncini. Altri sostengono che l'origine del nome sia da attribuire alla fantasia di una ragazza di vita, Yvette la Francese, che s'ispirò alle proprie origini provenzali. Yvette, probabilmente, non era dotata solo di fantasia, ma anche di senso dell'umorismo e di un'ironia alquanto caustica, che forse sfruttò per celebrare, attraverso il nome di questo piatto, la professione più antica del mondo. ...»
Jeanne Caròla Francesconi riporta invece una versione diversa:
«... Questi maccheroni, sebbene più ricchi dei loro parenti, si chiamavano alla marinara. Ma subito dopo la seconda guerra mondiale, a Ischia, il pittore Eduardo Colucci, non so come né perché, li ribattezzò con il nome con cui oggi è generalmente conosciuto. Colucci, che viveva per gli amici, d'estate abitava a Punta Molino - in quel tempo uno degli angoli più pittoreschi di Ischia - in una rustica e minuscola costruzione; camera con cucinino e un terrazzo in mezzo al quale si innalzava un albero di ulivo. Oltre ai consueti più intimi amici, sfilavano sulla sua terrazza le più svariate personalità italiane e straniere. E lui, dopo aver offerto come aperitivo un fresco e genuino vinello d'Ischia, improvvisava spesso una cenetta a base di questi maccheroni che erano la sua specialità. ...»
Annarita Cuomo riporta una versione ancora diversa:
«...Fu infatti l'architetto Sandro Petti, ai fornelli del suo Rancio Fellone, una sera di normale routine culinaria, di un'estate qualunque dell'inizio degli anni '50, a inventare il "Sugo alla Puttanesca", utilizzando quei prodotti freschi dei nostri orti, che tutti hanno normalmente in dispensa. È lo stesso architetto Sandro Petti a raccontarcelo: "Quella sera di tanti anni fa, era molto tardi, ai tavoli del locale sedettero un gruppo di amici veramente affamati... io avevo finito tutto, e li avvisai: "Mi dispiace non ho più nulla in cucina, non posso preparavi niente". Ma loro insistettero e mi esortarono dicendo: "Ma dai Sandro, è tardi e abbiamo fame, dove vuoi che andiamo... facci una puttanata qualsiasi". La "puttanata qualsiasi", che l'eclettico Sandro Petti (che in cucina è un autentico mago) portò in tavola di lì a poco, era proprio un fumante piatto di "Spaghetti alla Puttanesca" (solo che ancora non erano stati battezzati tali)... una pietanza che da quella famosa sera, divenne un must della tradizione culinaria dei ristoranti non solo ischitani, ma addirittura di tutto il mondo....»



Sartù di riso

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Il sartù di riso è un piatto tipico della cucina napoletana.
Si prepara con riso condito con ragù, piselli, pancetta, funghi, fior di latte o provola, polpettine di carne, salsicce, uova sode e, tradizionalmente, con fegatini di pollo. Il tutto viene infornato e quindi sformato prima di essere servito.
Si può presentare in sia nella versione al sugo, con ragù, che in bianco, senza.

Storia

Il riso, prodotto importato dagli Aragonesi nel Regno di Napoli, non riscontrò successo a Meridione - tranne in Sicilia, dove venne introdotto dagli Arabi. Venne adottato dalla Scuola Salernitata di Medicina e prescritto come cura per gli ammalati, ma non dal popolo, che gli preferiva la pasta. Il sartù nacque probabilmente dalla necessità di adattare questa pietanza al gusto di corte, sotto l'influenza della regina austriaca Maria Carolina. I monsù, cuochi francesi di corte, crearono nel Settecento questo piatto, arricchendo il riso con numerosi ingredienti e mascherandone il sapore con la salsa di pomodoro. Il nome stesso del piatto verrebbe dal francese surtout, il centrotavola che venne in uso nel Settecento e che poteva anche essere usato per portare in tavola il sartù, cucinato come un timballo.

 
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