Prima di cominciare a lavorare in
cucina, ero uno studente di design e grafica. Ma le lunghe e faticose
ore là dentro mi hanno fatto perdere interesse per le relazioni
sentimentali. Alla fine del turno, non pensavo ad altro che al sesso.
Nelle cucine vige un meteo a se stante.
L'aria è impregnata di grasso, fumo e odori pungenti di grembiuli
zeppi di sudore. Non importa quale sia la temperatura fuori, durante
il turno può sembrare di essere nel mezzo del Sahara.
Sono uno di quegli uomini che, nei mesi
più caldi, è vittima di un potentissimo risveglio ormonale. Tutte
quelle gambe nude, quelle clavicole, quei colli mi fanno girare la
testa.
Come i temporali possono essere causa
di improvvisa agitazione per alcuni, per me il caldo è un
catalizzatore di eccitamento. C'è qualcosa di animalesco nel modo in
cui il corpo umano reagisce al calore - il sudore, il rossore della
pelle, il respiro affannato. E anche se non posso attribuire la
mia (auto-diagnosticata) dipendenza dal sesso
solo al calore dell'ambiente lavorativo, sicuramente ha
giocato un ruolo.
Sì, avete letto bene: dipendenza dal
sesso. Prima di lavorare in una cucina ero uno studente di design e
grafica che amava l'erba e la McSweeney's [casa editrice]. Avevo una
vita sessuale nella media - non nel senso di relazioni stabili e a
lungo termine, ma nel senso di una buona dose di sesso soddisfacente
con ragazze alle quali piacevo e a cui volevo dare piacere. Tutto ciò
è cambiato quando ho abbandonato l'idea di far carriera nel mondo
della grafica, per buttarmi in una cosa che mi faceva eccitava a
livello viscerale: la cucina.
Nel mio primo lavoro, in un ristorante
molto frequentato a Soho, non c'era tempo per guardare le cameriere.
Ero chef-de-partie, responsabile di un piatto che consisteva in
costolette di agnello e carote.
Lavoravo 16 ore al giorno.
Mi svegliavo, ingurgitavo due caffè, andavo al lavoro,
tornavo a casa, e mi addormentavo vestito. Sei giorni a settimana.
Sollevavo a malapena la testa per parlare con i miei colleghi in
cucina, figurarsi quelli che lavoravano in sala. Anche se fisicamente
facevo fatica - a un certo punto avevo vesciche blu su tutte le dita
e una scottatura sul polso - lo adoravo. Lavorare con cibo di quella
qualità ed essere pagato per farlo, per me equivaleva alla
realizzazione di un sogno.
È stato solo quando ho cominciato a
lavorare nel ruolo di junior sous chef in un altro locale molto
frequentato di Londra che ho realizzato che stavo cambiando.
Qualsiasi chef ti dirà che fino a che non sei al punto di poter
aprire un tuo locale, in cui tu stesso decidi gli orari, non hai una
vita. La prospettiva di avere una relazione è ridicola; ho provato,
per un breve periodo, ma il fatto che ci vedessimo dopo mezzanotte o
per le poche ore in cui ero sveglio la domenica ha fatto sì che la
ragazza in questione presto decidesse di chiudere. Quando qualsiasi
tipo di contatto intimo con un altro essere umano diventa una
chimera, cominci a valutare le altre opzioni.
Non credo di passare per pervertito se
dichiaro che ho bisogno di fare sesso. Spesso. Masturbarsi sotto la
doccia prima di andare al lavoro non basta. Non voglio esclusivamente
darmi piacere da solo.
E così mi sono trovato, durante tutte
quelle ore calde e piene di sudore in cucina, a bramare il sesso più
di quanto non mi fosse mai successo nella vita.
Flirtavo continuamente con le cameriere.
A fine turno andavo a sedermi al bancone con le bartender,
mandavo via i clienti, e alla fine mi sono trovato a fare
regolarmente sesso con le mie colleghe. E non ero il solo - si è
scoperto che là dentro tutti si scopavano tutti.
C'era un rispetto implicito e reciproco
per la natura di quegli incontri. Non commentavamo. Non volevamo
dichiarazioni d'amore. Volevamo solo un corpo caldo accanto al quale
dormire.
Per qualche anno questa situazione mi è
andata bene. In qualsiasi ristorante nuovo andassi a lavorare, mentre
facevo carriera, mi trovavo ad andare a letto con tutte le cameriere.
Facevo pensieri sempre più perversi. Se arrivava una ragazza nuova,
la presentavo agli altri e mi ritrovavo a pensare a cosa le piacesse
fare a letto. A una certa ho cominciato a condividere questi pensieri
con gli altri chef. Non fatevi fregare: un gruppo di uomini in un
ambiente caldo, chiuso e teso genera inevitabilmente conversazioni
orrende. Anche se non credi a metà delle cose che stai dicendo, c'è
una specie di gara a chi la spara più grossa. Se nella cucina c'è
una donna ci si dà una controllata, ma nella mia esperienza anche
lei starebbe al gioco. È fantastico.
Comunque, con il tempo - ero uno chef
professionista da circa otto anni- ho cominciato a provare disgusto
per l'uomo che stavo diventando. Con il senno di poi mi accorgevo
che, nonostante le mie qualità e la mia esperienza, stavo
rinunciando all'idea di aprire un posto tutto mio o di ottenere un
ruolo serio da qualche parte. Avevo molte offerte. A un certo punto
ho rifiutato un'offerta in un ristorante due Stelle Michelin. Perché?
Perché mi stavo affezionando a una vita in cui potevo flirtare
continuamente, ignorare ogni possibilità di trovare una donna con
cui costruire qualcosa di serio, e fare moltissimo sesso occasionale.
Per dirla con parole semplici, avevo
sviluppato una dipendenza dal sesso con le cameriere.
Ho raggiunto il punto in cui ho
cominciato a sentirmi un parassita del sesso. Mi sono ritrovato a
dire alle cameriere frasi che non avrei mai pronunciato prima, a
buttare occhiate alle loro scollature quando mi passavano davanti.
Pregavo che le loro mani sfiorassero le mie quando prendevano un
piatto. Ecco a che punto ero arrivato.
Sono cresciuto in una famiglia di
donne, senza nessun modello maschile a cui fare riferimento. Mio
padre - un ex musicista - ci ha lasciati quando ero molto piccolo, e
mia madre e le mie sorelle mi hanno insegnato a rispettare le donne.
Quindi, in termini di esperienze formative, non c'era niente che
sembrasse giustificare il tipo di relazione che avevo con le donne da
adulto. Non ho mai visto mio padre trattare male mia madre, né un
qualsiasi uomo trattare male una donna. Forse è proprio questo il
punto. Non sapevo nemmeno cosa stavo facendo.
Mi sento ridicolo ad attribuire questa
mia specie di dipendenza dal sesso al lavoro in cucina, e sicuramente
ho tutta un'altra serie di problemi, che adesso infatti sto
affrontando con un analista. Ma da un punto di vista cronologico,
l'ambiente lavorativo ha sicuramente fatto emergere il peggio di me.
La vita da chef mi ha permesso di
concedermi un tipo di intimità che appagava i miei desideri fisici.
Quegli orari mi hanno portato a convincermi che non potevo vivere in
nessun altro modo, che era questo ciò che volevo e in cui ero bravo,
e che avrei dovuto sfruttarlo al massimo. Se le mie uniche relazioni
si svolgevano la notte, sempre con donne diverse, come avrei potuto
anche solo immaginarmi di avere una relazione? Ovviamente non era
questo quello che volevo. Mi nascondevo, per qualche paura di essere
rifiutato.
Ho smesso di fare lo chef qualche anno
fa, dopo esser finalmente andato da un analista, su consiglio di una
ragazza attorno a cui bazzicavo in uno strano tentativo di
coinvolgerla nella mia orbita sessuale. Non è stato facile farlo, ma
tra un turno e l'altro, un giorno sono salito sulla metro e sono
andato da un analista che mi ha detto, in modo molto chiaro, che
quello che stavo facendo non mi faceva bene. Ha detto che vedeva che
avevo bisogno di intimità, qualcuno che condividesse i miei desideri
sessuali ma capace anche di darmi risate, stabilità, affetto,
gentilezza, tutte queste cose. Mi ero semplicemente convinto di non
volerle.
So che tutto quello che ho scritto mi
fa sembrare un adolescente stronzo e arrapato che non ha alcun
controllo sul proprio pisello, e alla fine della mia carriera mi
sentivo proprio così. Adesso sto cercando di mettere a posto la mia
vita, e lavoro freelance come grafico. Sono tornato dall'analista,
che mi aiuta a sistemare i miei pensieri
costantemente-arrapati-e-costantemente-sessuali. Perché quando
incontrerò la donna giusta, voglio riuscire a darle il meglio di me.