Bourride

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Il bourride è un piatto di pesce di mare, simile al bouillabaisse, nativo della Provenza e della Linguadoca. È particolarmente noto a Sète (Hérault).
Il termine bourride è preso dal provenzale bourrido, che è derivata da boulido, bollito.
È preparato con pesce bianco, tra cui la rana pescatrice (nome mediterraneo della coda di rospo), che vengono cotti a vapore. Poi nella casseruola viene aggiunta verdura cotta a dadini (sedano, porri, carote, cipolle, ecc.). Si aggiunge poi maionese e olio d'oliva. Il tutto è portato sul tavolo insieme con crostini strofinati con aglio.
Simile come nome, ma di differente preparazione, è la zuppa di pesce ligure chiamata buridda.


Dentro la vita turbolenta di un famoso critico gastronomico

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Tra tentativi di corruzione, chef arrabbiati e problemi con l'anonimato.
Qualche mese fa Mac van Dinther ha festeggiato i suoi vent'anni di carriera critica. Bazzica l'ambiente da così tanto tempo che non solo è il critico più esperto e noto d'Olanda, ma è anche il più temuto. Ogni settimana nel corso degli ultimi due decenni ha setacciato il suo paese alla ricerca di piatti innovativi, ingredienti sorprendenti ed esperienze uniche. Dopo aver mangiato, scrive, e poi condivide le sue misurate osservazioni con i lettori del quotidiano nazionale olandese de Volkskrant.
Farti pagare per cenare fuori potrebbe sembrare il lavoro perfetto, ma non è proprio tutto qui. MUNCHIES ha parlato con Mac van Dinther di chef con problemi di gestione dell'ira, di tutti i modi in cui hanno tentato di corromperlo, e di che trucchi usa per cercare di rimanere anonimo.

Come sei diventato un critico culinario?
Mac van Dinther: Venticinque anni fa ho cominciato a scrivere, sempre sullo stesso quotidiano, di socioeconomia — cose come il mercato del lavoro e l'assegno di disabilità. Ma nel tempo libero potevo fare quello che volevo. Prendevo gli inviti alle degustazioni o alle aperture dei ristoranti che nessuno voleva e poi ci scrivevo qualche riga. All'inizio i miei colleghi mi prendevano in giro, ma allora sui media si parlava davvero poco di cibo. Alla fine, sia i colleghi che il pubblico del giornale si sono sempre più interessati alla ristorazione. Hanno cominciato a passarmi automaticamente gli inviti, e ci ho costruito sopra una carriera.

Hai festeggiato di recente i tuoi vent'anni da critico culinario. Pensavi di durare così a lungo nella professione?
Be', era quello che volevo. Dal primo giorno ho detto al mio caporedattore che non solo sarei stato il critico più magro della storia, ma anche il più longevo. Sono sicuro della seconda cosa, della prima non così tanto.

Pensi di essere anche il più temuto?
Ah, dipende dallo chef a cui chiedi. Funziona che un ristorante di una cittadina ha forse più paura della stampa locale, mentre un ristorante i cui clienti leggono il Volkskrant ha più paura di me. Altri, di me se ne sbattono proprio.

La tua faccia è abbastanza ignota al pubblico. Come sei riuscito a mantenere un relativo anonimato?Mi ci sono impegnato, non mi sono mai fatto fare foto come molti altri critici. E poi non vado agli eventi, giusto a un paio di presentazioni della guida Michelin. Comunque, cerco di volare basso.

Come fai a non farti riconoscere quando entri in un ristorante?
Prenoto sotto falso nome, porto qualcuno con me, e cerco di farmi i fatti miei. Questo è tutto. Metto il bloc-notes di fianco al piatto. Quando un cameriere mi chiede cosa scrivo, rispondo, "Mi appunto sempre quello che mangio". È la verità. Se insistono, gli dico che non sono fatti loro. A volte si arrabbiano perché pensano che gli stia rubando le ricette.

Ti sei mai mascherato?
No, non lavoro per i servizi segreti, sono un critico culinario. Mi rifiuto di mascherarmi.
Alcuni critici mentono sul lavoro che fanno, quando incontrano persone nuove…
Io dico che faccio il giornalista, e se continuano a pressarmi, gli dico che faccio il critico per de Volkskrant. A volte mi rispondono "Ooh, ma sei quel Mac van Dinther." Non è un segreto, amici e famiglia sanno cosa faccio.

Succede che ti riconoscano "sul lavoro"?
Certo. Una volta mi hanno accolto all'ingresso di un ristorante dicendomi, "Buonasera signor van Dinther, a che nome ha prenotato questa sera?" Probabilmente il miglior benvenuto della mia vita. Ovviamente preferisco rimanere anonimo perché voglio vivere la stessa esperienza degli altri clienti. Non voglio nessun trattamento speciale. So benissimo che se lo staff mi riconosce, sarò meno buono. Mi aspetterò qualcosa di più.

I ristoratori fanno una "caccia ai critici", per riconoscervi?
Ho sentito dire che i grandi ristoranti tengono le foto dei critici più noti in cucina. Ma penso che succeda soprattutto all'estero. In Olanda non tanto.

Cosa fanno, una volta che ti hanno riconosciuto, per assicurarsi che tutto vada bene?
Be', di solito mi continuano a portare vino, anche vino costosissimo che non ho chiesto. Una volta mi hanno servito del vino della cui straordinarietà mi sono immediatamente accorto. Ho guardato sulla carta, e costava 150 euro la bottiglia. Una bottiglia così non è solitamente consigliata per gli abbinamenti con il cibo. Sono trucchetti di cui ti accorgi subito. Uno chef un'altra volta insisteva per non farmi pagare quello che avevo bevuto — ridicolo. Ho detto, "Senti, paga il giornale, non io". Ma lui insisteva. Cosa avrei dovuto fare? Non potevo mettergli un coltello alla gola.
"Una volta uno chef arrabbiato ha scritto una lettera al caporedattore dopo una recensione sfavorevole, chiedendo in pratica che venissi licenziato"

Qual è la risposta più memorabile che hai ricevuto, dopo una recensione?
Non mi rispondono spesso, a volte magari un'e-mail carina dopo una recensione positiva. Ma una volta, uno chef arrabbiato ha scritto una lettera al caporedattore dopo una recensione sfavorevole, chiedendo in pratica che venissi licenziato. Il tono era tipo, "Chi si crede di essere il vostro critico? Non sa di che parla." Gli ho mandato una risposta amichevole, "Senti, faccio questo lavoro da vent'anni, sono abbastanza certo di sapere di cosa parlo. Invece che prendertela con me, usa queste energie per migliorare i tuoi ristoranti. I clienti apprezzeranno."

Che cosa hai imparato in questi vent'anni?
Più cose scopro su cucina e cibo, meno netto divento. In passato ero più duro. Ora penso spesso: chi sono io per dirlo?

Vai mai fuori a cena per divertimento?
Sì, ma a volte succedono cose strane. Per esempio, una volta io e mia moglie volevamo andare a cena al ristorante di un amico. Ma dato che era tutto pieno, lui ci ha prenotato un tavolo in un altro posto. Gli ha detto chiaramente che non ero lì per scrivere una recensione, ma comunque lo staff quando siamo arrivati era molto nervoso — ci riempivano i bicchieri fino all'orlo e continuavano a parlare. Non troppo divertente.

Hai qualche consiglio per i critici in erba?
No. Dovete fare da soli. È il modo migliore per imparare.


Ceppe

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Le ceppe (più propriamente maccheroni con le ceppe) sono un tipo di pasta all'uovo tipiche della provincia di Teramo, in particolare di Civitella del Tronto. Sono una sorta di bucatini corti 8-10 cm, ottenuti arrotolando la pasta (farina, acqua, uova) intorno a un bastoncino di legno, la ceppa appunto. Con il tempo, per metonimia, con il termine ceppa si è passati ad indicare non solo lo strumento, ma il tipo di pasta stesso.
All'originale ceppa in legno è andata via via sostituendosi un sottile ferro in acciaio inox.

Brodetto di Porto Recanati

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«Quant'è bonu el brudettu purtannaru
che gustu sapuritu, marinaru
é 'n'arte antiga sempre più deffusa
nun ve so' di pe' fallu cusa s'usa.
De l'arte sua ve giuru so' un sumaru
però quannu lu magnu é celu e maru»
(Luigi Sorgentini)

Il brodetto di Porto Recanati è un piatto unico a base di pesce, tipico della cittadina marchigiana.
Del brodetto Porto Recanati detiene una delle quattro ricette storiche della gastronomia marchigiana, assieme a Fano, Ancona e San Benedetto del Tronto, fra le quali sembra sia la più antica, come testimonierebbe l'assenza del pomodoro. Nato dall'estro del cuoco Giovanni Velluti, titolare di uno dei più antichi chalet dell'epoca, questa variante portorecanatese risale ai primi del ‘900 e si impose ben presto alla tradizione gastronomica marinara della città.
Risale ad una pubblicazione del Touring Club Italiano del 1923 l'indicazione del “Brodetto Bianco che si prepara a sud del Monte Conero”; nell'articolo si nota che già da allora il brodetto veniva inviato già cotto a Milano; la variante portorecanatese prevede infatti l'assenza di pomodoro e l'aggiunta di zafferanella o zafferanone (zafferano selvatico del Conero) che dà al piatto un colorito giallognolo (occhiu de gallu), caratteristica comune anche alla provenzale bouillabaisse, in cui però entra il più nobile Crocus sativus.
Il colore giallo dell'intingolo secondo alcuni fa riferimento all'oro, nella tradizione cristiana emblema della santità e di riflesso della salubrità del piatto.
Al brodetto bianco di Porto Recanati è dedicata un'importante manifestazione, “La settimana del brodetto” che si svolge ogni anno nella prima settimana di giugno e che vede la possibilità di degustare presso i ristoranti locali aderenti a prezzo promozionale.
Come in tutte le zone di mare, anche a Porto Recanati il brodetto nasce come piatto povero, nato dalla necessità di utilizzare anche il pescato meno richiesto dal mercato (a volte anche il ghiozzo, detto localmente guàtto), o quello che avanzava dalla vendita perché troppo piccolo.
E il Brodetto nacque così: tanti tipi di pesce povero, acqua di mare e come condimento solamente un po' d'olio; per satollarsi non rimaneva che far ammorbidire nel "brodetto" le durissime gallette portate a bordo.
Via via il piatto ha subito evoluzioni sempre più raffinate, conquistando una ben meritata fama in tutto il territorio Nazionale e diventando prerogativa indiscutibile delle Marche.
Per tradizione, il piatto necessita di non meno di nove, o meglio undici varietà di pesce, tra seppia, merluzzo, gallinella (Mazzulina), palombo (Stèra), pesce prete ('Occa'in cà'u), scorfano (Scòrfenu), tracina (Ragnu), cicala (Pannocchia), coda di rospo (Rospu), sogliole (Sfòja), triglia (Rusciòlu), razza (Ràggia), pesce San Pietro (Sampietru).
Far soffriggere in una grande casseruola a due manici in olio di oliva abbondante, la cipolla finemente affettata; aggiungere poi delle seppie precedentemente tagliate a pezzi, lasciarle insaporire e rosolare a fuoco lento, ricoprire poi le stesse di brodo di pesce ed aggiungere la zafferanella.
Aggiungere sale e pepe e portare a cottura sempre molto lentamente. In altra grande casseruola sistemare a strati i vari pesci (precedentemente infarinati) avendo cura di lasciare per ultimi quelli più teneri. Ad operazione ultimata versare tutto il brodetto precedentemente ottenuto con le seppie ( già sistemate tra gli strati di pesce di cui sopra ); aggiungere in parti eguali, acqua calda e vino bianco secco, regolare con sale e pepe e portare a cottura a fuoco allegro per 15/18 minuti circa.
Non toccare mai il pesce con mestoli o palette ma utilizzare i due manici della casseruola per smuovere di tanto in tanto il brodetto in cottura, evitando così di rompere i pesci. A cottura ultimata disporre delle fette di pane abbrustolito su appositi piatti, ricoprirle di pesce e versare la preparazione.

Fare lo chef mi ha reso dipendente dal sesso

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Prima di cominciare a lavorare in cucina, ero uno studente di design e grafica. Ma le lunghe e faticose ore là dentro mi hanno fatto perdere interesse per le relazioni sentimentali. Alla fine del turno, non pensavo ad altro che al sesso.
Nelle cucine vige un meteo a se stante. L'aria è impregnata di grasso, fumo e odori pungenti di grembiuli zeppi di sudore. Non importa quale sia la temperatura fuori, durante il turno può sembrare di essere nel mezzo del Sahara.
Sono uno di quegli uomini che, nei mesi più caldi, è vittima di un potentissimo risveglio ormonale. Tutte quelle gambe nude, quelle clavicole, quei colli mi fanno girare la testa.
Come i temporali possono essere causa di improvvisa agitazione per alcuni, per me il caldo è un catalizzatore di eccitamento. C'è qualcosa di animalesco nel modo in cui il corpo umano reagisce al calore - il sudore, il rossore della pelle, il respiro affannato. E anche se non posso attribuire la mia (auto-diagnosticata) dipendenza dal sesso solo al calore dell'ambiente lavorativo, sicuramente ha giocato un ruolo.
Sì, avete letto bene: dipendenza dal sesso. Prima di lavorare in una cucina ero uno studente di design e grafica che amava l'erba e la McSweeney's [casa editrice]. Avevo una vita sessuale nella media - non nel senso di relazioni stabili e a lungo termine, ma nel senso di una buona dose di sesso soddisfacente con ragazze alle quali piacevo e a cui volevo dare piacere. Tutto ciò è cambiato quando ho abbandonato l'idea di far carriera nel mondo della grafica, per buttarmi in una cosa che mi faceva eccitava a livello viscerale: la cucina.
Nel mio primo lavoro, in un ristorante molto frequentato a Soho, non c'era tempo per guardare le cameriere. Ero chef-de-partie, responsabile di un piatto che consisteva in costolette di agnello e carote. Lavoravo 16 ore al giorno. Mi svegliavo, ingurgitavo due caffè, andavo al lavoro, tornavo a casa, e mi addormentavo vestito. Sei giorni a settimana. Sollevavo a malapena la testa per parlare con i miei colleghi in cucina, figurarsi quelli che lavoravano in sala. Anche se fisicamente facevo fatica - a un certo punto avevo vesciche blu su tutte le dita e una scottatura sul polso - lo adoravo. Lavorare con cibo di quella qualità ed essere pagato per farlo, per me equivaleva alla realizzazione di un sogno.
È stato solo quando ho cominciato a lavorare nel ruolo di junior sous chef in un altro locale molto frequentato di Londra che ho realizzato che stavo cambiando. Qualsiasi chef ti dirà che fino a che non sei al punto di poter aprire un tuo locale, in cui tu stesso decidi gli orari, non hai una vita. La prospettiva di avere una relazione è ridicola; ho provato, per un breve periodo, ma il fatto che ci vedessimo dopo mezzanotte o per le poche ore in cui ero sveglio la domenica ha fatto sì che la ragazza in questione presto decidesse di chiudere. Quando qualsiasi tipo di contatto intimo con un altro essere umano diventa una chimera, cominci a valutare le altre opzioni.
Non credo di passare per pervertito se dichiaro che ho bisogno di fare sesso. Spesso. Masturbarsi sotto la doccia prima di andare al lavoro non basta. Non voglio esclusivamente darmi piacere da solo.
E così mi sono trovato, durante tutte quelle ore calde e piene di sudore in cucina, a bramare il sesso più di quanto non mi fosse mai successo nella vita. Flirtavo continuamente con le cameriere. A fine turno andavo a sedermi al bancone con le bartender, mandavo via i clienti, e alla fine mi sono trovato a fare regolarmente sesso con le mie colleghe. E non ero il solo - si è scoperto che là dentro tutti si scopavano tutti.
C'era un rispetto implicito e reciproco per la natura di quegli incontri. Non commentavamo. Non volevamo dichiarazioni d'amore. Volevamo solo un corpo caldo accanto al quale dormire.
Per qualche anno questa situazione mi è andata bene. In qualsiasi ristorante nuovo andassi a lavorare, mentre facevo carriera, mi trovavo ad andare a letto con tutte le cameriere. Facevo pensieri sempre più perversi. Se arrivava una ragazza nuova, la presentavo agli altri e mi ritrovavo a pensare a cosa le piacesse fare a letto. A una certa ho cominciato a condividere questi pensieri con gli altri chef. Non fatevi fregare: un gruppo di uomini in un ambiente caldo, chiuso e teso genera inevitabilmente conversazioni orrende. Anche se non credi a metà delle cose che stai dicendo, c'è una specie di gara a chi la spara più grossa. Se nella cucina c'è una donna ci si dà una controllata, ma nella mia esperienza anche lei starebbe al gioco. È fantastico.
Comunque, con il tempo - ero uno chef professionista da circa otto anni- ho cominciato a provare disgusto per l'uomo che stavo diventando. Con il senno di poi mi accorgevo che, nonostante le mie qualità e la mia esperienza, stavo rinunciando all'idea di aprire un posto tutto mio o di ottenere un ruolo serio da qualche parte. Avevo molte offerte. A un certo punto ho rifiutato un'offerta in un ristorante due Stelle Michelin. Perché? Perché mi stavo affezionando a una vita in cui potevo flirtare continuamente, ignorare ogni possibilità di trovare una donna con cui costruire qualcosa di serio, e fare moltissimo sesso occasionale.
Per dirla con parole semplici, avevo sviluppato una dipendenza dal sesso con le cameriere.
Ho raggiunto il punto in cui ho cominciato a sentirmi un parassita del sesso. Mi sono ritrovato a dire alle cameriere frasi che non avrei mai pronunciato prima, a buttare occhiate alle loro scollature quando mi passavano davanti. Pregavo che le loro mani sfiorassero le mie quando prendevano un piatto. Ecco a che punto ero arrivato.
Sono cresciuto in una famiglia di donne, senza nessun modello maschile a cui fare riferimento. Mio padre - un ex musicista - ci ha lasciati quando ero molto piccolo, e mia madre e le mie sorelle mi hanno insegnato a rispettare le donne. Quindi, in termini di esperienze formative, non c'era niente che sembrasse giustificare il tipo di relazione che avevo con le donne da adulto. Non ho mai visto mio padre trattare male mia madre, né un qualsiasi uomo trattare male una donna. Forse è proprio questo il punto. Non sapevo nemmeno cosa stavo facendo.
Mi sento ridicolo ad attribuire questa mia specie di dipendenza dal sesso al lavoro in cucina, e sicuramente ho tutta un'altra serie di problemi, che adesso infatti sto affrontando con un analista. Ma da un punto di vista cronologico, l'ambiente lavorativo ha sicuramente fatto emergere il peggio di me.
La vita da chef mi ha permesso di concedermi un tipo di intimità che appagava i miei desideri fisici. Quegli orari mi hanno portato a convincermi che non potevo vivere in nessun altro modo, che era questo ciò che volevo e in cui ero bravo, e che avrei dovuto sfruttarlo al massimo. Se le mie uniche relazioni si svolgevano la notte, sempre con donne diverse, come avrei potuto anche solo immaginarmi di avere una relazione? Ovviamente non era questo quello che volevo. Mi nascondevo, per qualche paura di essere rifiutato.
Ho smesso di fare lo chef qualche anno fa, dopo esser finalmente andato da un analista, su consiglio di una ragazza attorno a cui bazzicavo in uno strano tentativo di coinvolgerla nella mia orbita sessuale. Non è stato facile farlo, ma tra un turno e l'altro, un giorno sono salito sulla metro e sono andato da un analista che mi ha detto, in modo molto chiaro, che quello che stavo facendo non mi faceva bene. Ha detto che vedeva che avevo bisogno di intimità, qualcuno che condividesse i miei desideri sessuali ma capace anche di darmi risate, stabilità, affetto, gentilezza, tutte queste cose. Mi ero semplicemente convinto di non volerle.
So che tutto quello che ho scritto mi fa sembrare un adolescente stronzo e arrapato che non ha alcun controllo sul proprio pisello, e alla fine della mia carriera mi sentivo proprio così. Adesso sto cercando di mettere a posto la mia vita, e lavoro freelance come grafico. Sono tornato dall'analista, che mi aiuta a sistemare i miei pensieri costantemente-arrapati-e-costantemente-sessuali. Perché quando incontrerò la donna giusta, voglio riuscire a darle il meglio di me.


Chuño

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Il chuño, voce originaria delle Ande centrali (aymara, quechua: ch'uñu "ruga" o "piega"), è il risultato della disidratazione o addirittura della liofilizzazione della patata, o altri tuberi di montagna.
La preparazione del chuño è la forma tradizionale di conservare e immagazzinare le patate per periodi lunghi, a volte anche anni. Questo prodotto è uno degli elementi centrali dell'alimentazione indigena e, in generale, della gastronomia delle regioni dove viene prodotto. Attualmente si produce e consuma chuño regolarmente nel nord-ovest dell'Argentina, nell'altipiano boliviano, nel nord del Cile e nella regione andina e costiera del Perù.
In Argentina e in Chile si chiama chuño anche l'amido che si ottiene tritando le patate ed in seguito alla decantazione di granuli di amido che galleggiano nel succo di patata prodotto. In Argentina con tale amido si preparano occasionalmente dolci simili ai flan.
Durante la Seconda guerra mondiale gli Alleati scoprirono le forme di liofilizzare patate e cereali; tale procedimento era uguale a quello utilizzato da secoli dai popoli andini. Da lì la comparsa sulle nostre tavole dei purè istantanei.

Borzat

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Il borzat è un insaccato di carne di pecora, prodotto esclusivamente nel comune di Livigno, in provincia di Sondrio, che è posto in una valle con una altezza minima di 1.800 metri, al di là della linea di displuvio delle Alpi, con un fiume lo Spöl, affluente dell'Inn che è tributario del bacino del Danubio.
Il borzat è stato riconosciuto come un prodotto agroalimentare tradizionale e consiste in un parallelepipedo di pelle di pecora, cucito a mano, ripieno di carne di pecora, aromatizzato con aglio, pepe, sale, cannella.
Il peso è di 1/3 kg. La carne di pecora è tagliata a pezzetti e viene introdotta nell'involucro che viene cucito con un filo di lana. Una bruciatura elimina la lana in eccesso.
Il prodotto viene consumato cotto previa bollitura.


 
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