(LA)
«Pulte, non pane, vixisse
longo tempore Romanos manifestum»
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(IT)
«Di polta e non di pane
vissero per lungo tempo i Romani»
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Seneca nel criticare la sregolatezza
dei costumi dei suoi contemporanei attribuiva la crisi delle antiche
doti morali alla perdita dell'antica frugalità, a quella parsimonia
veterum che in effetti si riscontra nelle abitudini alimentari
primitive quando i latini si nutrivano di polente (puls) in
parte sostituite nel II secolo a.C. dal pane.
Nei tempi arcaici il piatto nazionale
romano erano le crocchette rapprese di polenta di miglio cotta nel
latte (puls fitilla), poi la vera e propria polenta (era
chiamata così in latino la farinata di orzo) e infine, arrivati a
una certa agiatezza, soprattutto di puls farrata o farratum,
una più saporita e nutriente (molto più ricca di proteine) polenta
di farro (Triticum nonococcum o farro piccolo, e T. dicoccum o farro
medio) cotta in acqua e sale, con i più diversi contorno di legumi,
verdure, mandorle, pesciolini salati (gerres o maenae),
frutta, formaggi e, raramente, di carne.
La frugalità antica
La sobrietà alimentare caratteristica
della virtus romana era negli stessi inizi leggendari di Roma
quando sulle navi di Enea, secondo il racconto di Virgilio, durante
una travagliata navigazione durata sette anni, i marinai troiani
potevano nutrirsi quasi esclusivamente della polenta di farro
accompagnata dai pesci pescati durante il viaggio e dalla poca carne
acquistata nei porti.
Un'alimentazione quella antica fatta
soprattutto di vegetali, com'era nell'uso dei vicini etruschi da cui
nei periodi di carestia provenivano a Roma lungo il Tevere i
rifornimenti di grano («ex Tuscis frumentum Tiberi uenit») che
permisero dal II secolo a.C. la produzione del pane di cui esistevano
tre qualità: quello candidus, fatto di farina bianca
finissima, secundarius sempre bianco ma con farina miscelata
ed infine quello plebeius o rusticus una specie di pane
integrale.
Dagli stessi etruschi più ricchi ai
quali «le possibilità economiche e le necessità del decoro
gentilizio lo consentivano» giunse a Roma l'abitudine di nutrirsi di
un cibo più variato e ricco di proteine costituito sia da selvaggina
che da animali di allevamento.
Quando poi Roma entrò in contatto in
età ellenistica con i Greci della Magna Grecia da loro imparò ad
apprezzare i frutti dell'olivo e della vite che aveva usato fino a
quel momento soprattutto per i riti religiosi.
A partire dall'età di Augusto, con la
conquista dell'Oriente e gli intensi rapporti commerciali con l'Asia
arrivò a Roma «tutto quanto la terra produce di bello e di buono».
E l'alimentazione romana si raffinò: al cibo inteso come puro
sostentamento cominciò in epoca imperiale a sostituirsi, anche con
l'uso delle spezie e dei profumi, il gusto e la cultura del cibo,
passando dalla pura alimentazione ai sapori.
I pasti
I romani dividevano normalmente la loro
alimentazione in tre pasti quotidiani che agli inizi erano chiamati
ientaculum, cena, vesperna e quando quest'ultima
sparì, fu sostituita dal prandium. Raramente i romani
dedicavano molta attenzione ai primi due pasti che non erano mai
molto nutrienti e il più delle volte abolivano uno dei primi due.
Alcuni anziani seguivano l'ordine dei
tre pasti perché così avevano loro consigliato i medici come a
Plinio il vecchio, sempre molto frugale, e a Galeno che consumava lo
ientaculum verso l'ora quarta. I soldati si accontentavano di
un prandium verso mezzogiorno. Marziale ci descrive il suo
ientaculum costituito da pane e formaggio, mentre il prandium
consisteva in carne fredda, verdura, frutta e un bicchiere di vino
miscelato con acqua.
Ancora più limitato lo ientaculum di
Plinio il Vecchio (cibum levem et facilem) a cui seguiva una
merenda per prandium (deinde gustabat) il tutto senza
apparecchiare (sine mensa) e senza doversi lavare le mani
(post quod non sunt lavandae manus).
Il garum
Per la maggioranza dei romani la
colazione consumata prima di recarsi al lavoro era semplicissima: un
bicchiere d'acqua o qualcosa rimasto dalla cena della sera prima. Per
quanto invece riguarda il prandium, i poveri e la plebe certo non
tornavano in casa per desinare, ma il più delle volte mangiavano
nelle tabernae dove si consumava del pane con companatici semplici
come uova sode, formaggio, legumi e si beveva vino mescolato con
acqua calda d'inverno o fredda d'estate. Si usava insaporire i cibi
con il garum, la cui ricetta ci è stata tramandata da
Gargilio Marziale: una salsa liquida a base di pesci sotto sale,
specialmente teste di acciughe sotto sale ed erbe aromatiche -
simile, ma più aromatica, alle attuali salse orientali di pesce,
come il nuoc-mam -, che i ricchi versavano a gocce come condimento su
svariate pietanze. Del garum esistevano numerose varianti, a seconda
dei pesci o delle interiora usate, o del periodo di maturazione.
Unendovi aceto, pepe ed altre spezie si otteneva l'oxygarum anche
questo reperibile in una salsa ancor oggi in commercio. La parte
solida che restava dalla macerazione dopo averne estratto per
pressione il liquido residuo (garum oppure liquamen,
quest'ultimo probabilmente più diluito e forse dolcificato) era
l'allec, che doveva somigliare per sapore alla nostra pasta
d'acciughe, ma più aromatica. Era una raffinatezza adatta agli
antipasti, e nella sua versione economica (ottenuta da garum di
interiora) una ghiottoneria alla portata del popolo: servitori,
soldati e contadini usavano spalmarla sul pane per insaporirlo, visto
che ne consumavano grandi quantità, anche un chilo al giorno.
La cena
Per tutti il pasto principale era
quindi la cena, che molti immaginano, secondo una diffusa
leggenda di stampo classico e classista, come uno sfarzoso banchetto
ma che in realtà, salvo quelli che potremo considerare come
ricevimenti particolari, cioè casi molto rari, era per i più
altrettanto frugale dei primi due pasti. In sostanza, la stragrande
maggioranza dei Romani mangiava normalmente seduta su panche
(raramente su sedie) e attorno ad un tavolo, come noi.
Infatti, Roma e tutta la società
dell'epoca, erano composte di un larghissimo strato popolare fatto da
persone povere o poverissime, che vivevano in strette stanzette per
lo più in affitto, prive di cucina, nelle scomode e pericolose
insulae, case alte fino a 8 piani. Essendo l'unica affollatissima
culina (cucina) del palazzo sistemata nell'atrio comune, una
sorta di cortile, molti erano ridotti a cucinare alla meglio sui
bracieri, e altri ancora acquistavano addirittura l'acqua bollente
nei thermopolia (i bar dell'epoca) alla base delle insulae.
Questa gente mai avrebbe potuto permettersi triclini (che fanno più
parte dell'arredamento di una domus, una grande casa con ampie stanze
e servitori) e pietanze raffinate, se non - durante l'Impero e
mettendo da parte risparmi - per il pranzo di nozze nei triclini
d'affitto messi a disposizione dalle tabernae (le osterie).
Lo storico Jérôme Carcopino ha
calcolato che su un milione di abitanti della Roma di Augusto (II
sec.) appena 1780 erano le domus, cioè le case patrizie, ovvero le
abitazioni monofamiliari, ricche, capaci di triclinio e servitori.
Una proiezione induttiva porta a ritenere che appena lo 0,2 per
cento, ossia 2000 persone su un milione, in pratica il ristrettissimo
ceto dominante, l'aristocrazia, i ricchi e gli intellettuali, spesso
invitati, potessero cenare adagiati sul triclinio (N. Valerio, cit.,
pag. 144).
L'ora in cui iniziava la cena era per
la maggioranza dei romani la stessa, quella che seguiva il bagno alle
terme: l'ottava in inverno e dopo la nona in estate. Questo ad
esempio è l'orario per la famiglia di Plinio il Giovane e quello che
Marziale dà al suo amico Giulio Ceriale per cenare assieme nella sua
casa.
La cena di solito terminava prima che
fosse notte fonda, fatta eccezione per i grandi banchetti: quelli di
Nerone, ad esempio, si prolungavano da mezzogiorno sino a mezzanotte,
il festino di Trimalcione non finiva prima dell'alba, e i gaudenti,
indicati alla pubblica riprovazione da Giovenale, s'ingozzavano sino
«al sorger di Lucifero nell'ora che i duci movean le schiere in
campo».
I fastosi banchetti erano una forma di
ostentazione della ricchezza delle classi agiate che tramite le cene
conseguivano notorietà: «Non è sufficiente, per te, Tucca, essere
goloso: vuoi che così si dica di te, e così apparire...».
Di solito si curava particolarmente
l'allestimento del banchetto attraverso effetti scenografici, ad
esempio con fiori e giochi d'acqua che esaltassero la magnificenza
dei cibi offerti agli invitati. Per una cena offerta da Nerone,
racconta Svetonio, vennero spesi per la sola decorazione floreale
oltre quattro milioni di sesterzi.
Il triclinium
Alla cena, nella casa dei più ricchi
era riservata una stanza particolare: il triclinium, di solito
lunga il doppio della sua larghezza, che prendeva il nome dai letti a
tre posti (triclinia) dove si stendevano i commensali. Nei
tempi passati le donne erano destinate a sedere ai piedi del marito
ma in età imperiale le matrone romane hanno acquisito il diritto al
triclinio mentre ai ragazzi erano destinati degli sgabelli di fronte
al letto dei genitori. Gli schiavi solo nei giorni di festa potevano
essere autorizzati dal padrone all'uso del triclinio che quindi era
collegato non solo alla comodità, piuttosto relativa per le nostre
abitudini, ma che soprattutto veniva considerato un segno di
benessere e distinzione sociale.
Ma eccetto che i pochissimi ricchi,
potenti o intellettuali, cioè circa lo 0,2 per cento della
popolazione romana del primo impero, come calcolato da Jérôme
Carcopino, tutti gli altri, cioè il 99,8 per cento, mangiavano come
noi attorno ad un tavolo, anzi seduti su scomode panche senza
spalliera. L'aneddoto secondo cui l'austero Catone l'Uticense, per il
dolore provato dalla sconfitta dell'esercito del senato a Farsalo,
giurò di mangiare seduto sino a quando non fosse finita la tirannide
di Cesare prova solo che Catone l'Uticense per quanto austero era un
membro famoso e potente della ristrettissima minoranza sociale ed
economica che governava Roma, per la quale il triclinio era
ovviamente un segno di distinzione acquisito.
L'assegnazione dei posti nei letti era
prevista da una rigorosa etichetta che prevedeva che il personaggio
più illustre sedesse nel lectus medius, al posto consularis,
il più importante, accanto all'invitato meno ragguardevole che
trovava posto nel lectus imus. Di solito i letti erano tre con
al centro una tavola quadrata o circolare: i commensali sedevano di
sghembo con il gomito sinistro appoggiato su cuscini e i piedi, senza
scarpe e lavati, nella parte più bassa del triclinium.
Un maggiordomo annunciava gli invitati
mano a mano che arrivavano alla cena e assegnava loro il posto
stabilito. I servitori disponevano le varie portate sulla tavola
ricoperta da una tovaglia: uso questo iniziato dall'età di Domiziano
in poi, precedentemente si lavava di volta in volta la superficie in
marmo o legno della tavola.
Gli invitati avevano a disposizione
coltelli, stuzzicadenti dal doppio uso con un piccolo cucchiaino a
forma di manina ad una estremità che veniva usato per pulirsi le
orecchie, e cucchiai di varia forma. Niente forchette, che non erano
conosciute, per cui era necessario lavarsi frequentemente le mani tra
una portata e l'altra: compito assolto da servi che versavano acqua
profumata da anfore e fornivano un tovagliolo per asciugarsi le mani.
Tovagliolo che avevano anche i commensali che per lo più se lo
portavano via al termine della cena con le pietanze che erano
avanzate (apophoreta).
I cibi e il vino
Il banchetto prevedeva almeno sette portate (fercula)
(LA)
«Quis fercula septem
secreto cenavit avus?»
|
(IT)
«Chi dei nostri avi
pranzava da solo con sette portate?»
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Svetonio, nel descrivere i pasti
dell'imperatore, Ottaviano Augusto, sostiene che fossero modesti:
(LA)
«Cenam ternis ferculis aut
cum abundantissime senis praebebat, ut non nimio sumptu, ita summa
comitate. Nam et ad communionem sermonis tacentis vel summissim
fabulantis provocabat, et aut acroamata et histriones aut etiam
triviales ex circo ludios interponebat ac frequentius aretalogos.»
|
(IT)
«Faceva servire tre portate
o sei quando esagerava, non spendendo eccessivamente, seppure
risultando estremamente affabile. Infatti, quando gli ospiti
tacevano o parlavano a voce bassa, li trascinava in una
conversazione generale o faceva intervenire narratori, istrioni e
anche ordinari attori del circo, più frequentemente ciarlatani.»
|
(Svetonio, Augustus,
74.) |
Si cominciava con gli antipasti
(gustatio) poi tre primi piatti, due arrosti e il dolce
(secundae mensae).
In questi grandi ricevimenti quello che
importava non era soltanto l'abbondanza e la qualità dei cibi
offerti ma anche la loro presentazione scenografica necessaria per
stupire i commensali ma che comportava una mescolanza di cibi spesso
incompatibili tra loro e dannosi per la salute. Tipico caso è
l'episodio di Trimalcione che durante il banchetto, si scusa con gli
invitati perché è costretto ad assentarsi per fastidiosi disturbi
di stomaco che il medico non è riuscito ancora a guarire.
L'eccessiva elaborazione dei piatti portava conseguenze dannose per
la salute dei più ricchi spesso malati di obesità, gotta e
calcolosi. Anche Orazio osserva come «a che punto la varietà dei
cibi sia nociva per l'uomo puoi capirlo se ripensi a come hai
facilmente digerito quella pietanza semplice che hai mangiato un
giorno, mentre invece non appena gli avrai mescolato il bollito e
l'arrosto, i molluschi e i tordi… si genererà lo scompiglio nel
tuo stomaco».
E se da un lato Augusto risultò sobrio
nell'utilizzo di cibi e vino, con gusti quasi volgari, preferendo il
pane comune, i pesciolini, il formaggio di vacca pressato a mano, i
fichi freschi (della specie che matura due volte all'anno), vi erano
altri imperatori che fecero della ricercatezza ed originalità a
tavola una loro caratteristica. È il caso di Gallieno, il quale,
secondo la Historia Augusta
«[...] in primavera si
faceva preparare giacigli di rose, costruiva castelli di frutta,
conservava l'uva per tre anni, in pieno inverno imbandiva dei
meloni. Insegnò il modo di conservare il mosto per tutto l'anno
ed offriva, anche fuori stagione, fichi verdi e frutta appena
colta dagli alberi. Faceva sempre apparecchiare le tavole con
tovaglie d'oro, facendosi preparare vasellame ornato di gemme e
d'oro. [...] Banchettava in pubblico.»
|
(Historia
Augusta - Due
Gallieni, 16.2-5.)
|
«Beveva sempre in coppe
d'oro, disprezzando il vetro, e affermando che nessun materiale
era più comune. Cambiava sempre qualità di vino e nel corso di
uno stesso banchetto non beveva mai due volte la stessa qualità.
Le sue concubine sedevano spesso nei suoi tricilini. La seconda
portata disponeva della presenza di mimi e buffoni.»
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(Historia
Augusta - Due
Gallieni, 17.5-7.)
|
Il vino bevuto dai romani nei tempi
antichi doveva consistere in una specie di mosto fermentato ma già
alla fine della Repubblica si cominciò a mescolare diverse qualità
di uve migliorandolo nel sapore. È soprattutto nel periodo imperiale
che si comincia ad importare vini dalla Grecia che si mantenevano più
a lungo perché miscelati con acqua di mare, argilla o sale che però
secondo Plinio il Vecchio sono in questo modo nocivi per la salute
dello stomaco e della vescica. Lo stesso Plinio raccomanda di non
eccedere nel bere vino che porta all'ubriachezza quando «l'alito sa
di botte … e la memoria è come morta...mentre coloro che bevono
pensano di prendere in pugno la vita, ogni giorno, come tutti,
perdono il giorno precedente, ma ancor più quello successivo»
L'usanza di bere vino miscelato con
acqua derivava direttamente dai greci come testimoniano frammenti di
Ateneo, Anacreonte (VI secolo a.C.) ed in Filocoro (IV secolo a.C.).
L'uso si ritrova ancora nella prima metà del secolo IV dopo Cristo
nella raffigurazione di un banchetto nelle catacombe romane dei SS.
Marcellino e Pietro ove, oltre al vasellame e alle anfore, compare
anche uno scaldabevande.
Il vino, mescolato a resine e pece, era
conservato in anfore chiuse con tappi di sughero o di argilla munite
di una targhetta che ne indicava l'annata e la denominazione. Pochi
erano quelli che potevano bere il vino puro e venivano considerati
come sregolati ubriaconi mentre normalmente il vino veniva servito
filtrato con un colino e mescolato con acqua in una grande coppa, il
cratere, da cui poi ognuno si serviva.
Un banchetto degno del suo nome non
poteva non essere accompagnato da intermezzi in cui si esibivano in
danze scollacciate, per cui erano celebri, le donne di Gades che
ballando a suon di nacchere lasciavano poco all'immaginazione degli
invitati che nel frattempo favorivano la digestione lasciandosi
andare, poiché non bisogna contrastare la natura, a rutti e,
ottemperando al ridicolo decreto dell'imperatore Claudio,
all'emissione di gas di altra specie. Si arrivava addirittura a
servirsi durante il banchetto di appositi vasi per bisogni più
consistenti.
La commissatio
Nei grandi banchetti, quando ormai gli
invitati sono pieni di cibo, vi è poi una seconda parte secondo la
tradizione della commissatio. Già durante la cena si era
bevuto abbondantemente vino con miele e successivamente vino
miscelato con acqua.
La cerimonia che poneva fine al
banchetto, prevedeva che si bevessero d'un fiato una serie di coppe
così come prescriveva chi presiedeva la commissatio. I convitati
disposti in cerchio a partire dal più importante bevevano passandosi
la coppa e brindando, oppure veniva scelto un invitato a cui tutti
bevendo brindavano con tante coppe quante erano le lettere che
componevano i suoi tria nomina di cittadino romano.
Non tutti però ricevevano questo sontuoso trattamento com'è
descritto nella cena di Trimalcione. Era usanza piuttosto diffusa che
il padrone di casa per darsi importanza invitasse un gran numero di
convitati ma che riservasse a sé e a scelti commensali il cibo e i
vini migliori mentre agli altri somministrava un vino di pessima
qualità, pane raffermo, cavoli lessati, gli avanzi di una gallina
coriacea e per frutta una mela mezza marcia «come quelle che
rosicchiano le scimmie ammaestrate che fanno gli esercizi sulle
mura».
Il grande scialacquatore: Marco Gavio Apicio
Nell'età che seguì alla morigeratezza
augustea, quando i romani vollero gustare i piaceri della vita che
offrivano loro le grandi risorse dell'Impero, divenne noto un
eccezionale buongustaio Marco Gavio Apicio menzionato sia da Seneca
che da Plinio. Su questo personaggio si andò accumulando
un'esuberante aneddotica. Si vuole, ad esempio, che nutrisse le
murene con la carne degli schiavi, e che si sia suicidato dopo aver
dilapidato in banchetti un immenso patrimonio. In base a
testimonianze indirette, comunque, si può affermare con certezza che
Marco Gavio nacque intorno al 25 a.C. e morì verso la fine del regno
di Tiberio.
Apicio nelle sue fastose cene offriva
ai suoi ospiti cibi elaborati, come pappagallo arrosto, utero di
scrofa ripieno o ghiri farciti, di cui egli stesso indicava le
ricette che intorno al 230 d.C. un cuoco di nome Celio compilò in
una raccolta in dieci libri, il De re coquinaria (L'arte
culinaria), attribuendola ad Apicio. Si tratta di appunti
frettolosi e disordinati che costituiscono, tuttavia, la principale
fonte superstite sulla cucina nell'antica Roma.
A questo stravagante personaggio che
Plinio il Vecchio definisce «il più grande tra tutti gli
scialacquatori» si dovrebbe l'invenzione di qualcosa di simile al
foie gras che egli otteneva ingozzando le oche di fichi in
modo da far loro ingrossare il fegato da cui il termine ficatum
che passò poi a designare il fegato.
Una ricetta particolare di Apicio era
quella di cuocere diverse volte i cibi: ad esempio la carne aveva una
prima cottura in acqua, poi nel latte, nell'olio e infine in una
salsa speziata. Lo scopo, oltre quello di insaporire le vivande era
quello di seguire le indicazioni di Galeno secondo il quale «i cibi
ben cucinati stimolano l'appetito e risparmiano molto lavoro allo
stomaco» anche se le cotture prolungate e diverse, noi sappiamo,
fanno perdere molti degli elementi nutritivi.
Apicio venne aspramente criticato da
Seneca che lo addita come «un cattivo esempio» per la gioventù e
da Marziale che ne parla dicendo: «avevi profuso, Apicio, per la tua
golosità sessanta milioni di sesterzi e ti rimaneva ancora un bel
margine di dieci milioni. Ma tu hai rifiutato di sopportare quella
che per te era fame e sete e hai bevuto, come ultima bevanda, il
veleno: non avevi mai agito, Apicio, più golosamente.»
Nel banchetto: vita e morte
La presenza di tanti cibi che
esaltavano i piaceri della vita, ma anche del vino dai cui eccessi
spesso deriva una tristezza etilica, portava con sé anche una
riflessione sulla fine della vita e della morte incombente che
costituiva spesso un tema rappresentato nei mosaici dei triclini
nella forma di scheletri che portano anfore come quelli effigiati nel
vasellame d'argento ritrovato a Boscoreale, in particolare su due
coppe dove sono raffigurati scheletri di scrittori e filosofi greci
contornate da scritte che proclamano sentenze come «Godi, finché
sei in vita, il domani è incerto», «La vita è un teatro», «Il
piacere è il bene supremo».
Si spiega così come anche Trimalcione,
al termine della sua memorabile cena si presenti ai suoi invitati con
uno scheletro d'argento, mentre legge agli ospiti stralunati, in una
sorta di cerimonia funebre, tra i pianti dei servi, il suo
testamento.
La sobrietà della piccola borghesia e della plebe
Si sbaglierebbe a pensare che gli
eccessi descritti a proposito dei banchetti imbanditi dai crapuloni
come Trimalcione dove
(LA)
«Vomunt ut edant, edunt ut
vomant»
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(IT)
«Vomitano per poter
mangiare e mangiano per poter vomitare»
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caratterizzassero le cene di tutti i
romani di elevata condizione. Non era così per gli intellettuali
come Marziale, Giovenale lo stesso Plinio il Giovane che prepara per
la cena dei suoi ospiti una lattuga, tre lumache, due uova per
ciascun invitato, olive, cipolle, zucche, un pasticcio di farro e
vino miscelato con miele raffreddato nella neve. La stessa sobrietà
caratterizza i conviti dei plebei che ad esempio nello statuto del
collegio funerario, istituito a Lanuvio nel 133 d.C. per sopperire in
comune alle spese dei funerali dei loro membri, stabiliscono che
nelle previste sei cene sociali annuali si imbandirà un pane di due
assi, quattro sardine e un'anfora di vino caldo e prevedono multe per
chi non sarà educato a tavola ingiuriando un collega o facendo
chiasso.
La frugalità cristiana
Fin dal primo secolo i cristiani di
Roma avevano trasformato le cenae in agape dove
assumevano «lodando Dio, il loro cibo con gioia e semplicità di
cuore». Scriveva Tertulliano nel II secolo: «non ci si sdraia per
mangiare che dopo una preghiera a Dio. Si mangia secondo la propria
fame, si beve come conviene a gente pudica, ci si sazia come gente
che non dimentica che anche la notte bisogna adorare Dio. Si discorre
come chi sa che Dio ascolta».
Con il riconoscimento del Cristianesimo
nel 313 come religione tollerata si diffonde l'uso di onorare con
banchetti funebri (refrigeria) il genetliaco dei martiri: si
imbandisce quindi un frugale pasto in comune o si fanno libagioni che
durano tutto il giorno in un clima festoso che venne comunque
condannato per l'«abundantia epularum et ebrietate».
L'ammonimento di Sant'Ambrogio: «chi
indulge in cibi e bevande non crede nell'aldilà» è ormai il segno
di una politica moralizzatrice delle autorità religiose tendenti a
eliminare ogni eccesso della carnalità anche per quanto riguarda
l'alimentazione.