Frittata con gli zoccoli

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La frittata con gli zoccoli è un piatto della tradizione contadina toscana.
Nato per la necessità di riciclare gli avanzi, la frittata con gli zoccoli altro non è che una frittata alta, arricchita da cubetti di pancetta.
Le famiglie contadine utilizzavano ciò che avevano a disposizione per preparare il pranzo, ovvero, uova fresche ed avanzi del giorno prima, non era raro infatti, trovare questa frittata diversa ogni giorno, arricchita con pancetta, come richiede la tradizione, o con pezzetti di carne o salumi avanzati.



Cucina italiana

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La Scienza in Cucina e l'Arte di Mangiar Bene di Pellegrino Artusi fu la prima opera letteraria sulla cucina dell'Italia Unita.  



La cucina italiana si è sviluppata attraverso secoli di cambiamenti politici e sociali, con radici che risalgono al IV secolo a.C. La cucina italiana stessa è stata influenzata dalla cucina dell'antica Grecia, dell'antica Roma, bizantina, ebraica e araba e normanna. Importanti mutamenti si ebbero con la scoperta del Nuovo Mondo e l'introduzione di nuovi ingredienti come patate, pomodori, peperoni e il mais, ora fondamentali nella cucina ma introdotti in quantità solo nel XVIII secolo. La cucina italiana è conosciuta per la propria diversità a livello regionale, abbondanza nel gusto e nei condimenti, è inoltre ritenuta la più famosa nel mondo, con influenze a livello internazionale, tanto che l'emittente televisiva statunitense CNN la colloca al primo posto tra le cucine più apprezzate a livello globale.
La caratteristica principale della cucina italiana è la sua estrema semplicità, con molti piatti composti da 4 fino ad 8 ingredienti. I cuochi Italiani fanno affidamento sulla qualità degli ingredienti piuttosto che sulla complessità di preparazione. I piatti e le ricette, spesso, sono stati creati dalle nonne più che dagli chef, ed è per questo che molte ricette sono adatte alla cucina casalinga. Molti piatti che una volta erano conosciuti solo nelle regioni di provenienza, si sono diffusi in tutta la nazione. Il formaggio ed il vino costituiscono una parte importante della cucina, con molte variazioni e una tutela legale specifica, la Denominazione di origine controllata (DOC). Anche il caffè, specialmente l'espresso, è divenuto importante nella cucina italiana.


I pasti principali

Nella cucina italiana i pasti principali sono:

La colazione

La colazione è solitamente dolce con del latte caldo o freddo o del succo di frutta accompagnati da prodotti da forno come biscotti o pane con marmellata o crema di nocciole. Il caffè predomina con le varianti del cappuccino, del caffellatte, o del famoso caffè espresso. In alcune occasioni speciali come la domenica o le festività possono essere presenti anche prodotti di pasticceria.

Il pranzo

Tradizionalmente il pranzo è il pasto più importante della giornata ed è, se completo, composto da tre o quattro portate;
  • Un antipasto, in genere composto da crostini, salumi, formaggi, verdure.
  • Un primo piatto in genere un piatto di pasta o riso o una minestra.
  • Un secondo piatto di carne o pesce o formaggi o prosciutto accompagnato da un contorno di verdure.
  • Del dolce o della frutta per chiudere.
Oggi questo pranzo completo è utilizzato prevalentemente nei giorni festivi mentre per gli altri giorni si ricorre in genere a una sola portata o a un piatto unico.

La cena

Lo schema della cena ricalca quello del pranzo, con più o meno le stesse portate. Al giorno d'oggi, a differenza del pranzo, la cena rimane ancora, assieme alla colazione, un pasto consumato solitamente in compagnia perciò può presentare più pietanze del pranzo. Tutto ciò può variare a seconda delle tradizioni e dello sviluppo da regione a regione.



Gli spuntini

Detti anche merenda, non sono pasti principali ma sono importanti per placare la fame di metà mattina e pomeriggio, lontano dal pranzo e dalla cena. Sono solitamente leggeri e composti da frutta, pane e marmellata e d'estate anche del gelato.


La cucina italiana all'estero

È una delle cucine che viene offerta di più dai ristoranti del mondo, anche se spesso gli italiani non sono soddisfatti di come i ristoranti preparino i piatti italiani all'estero. Se uno dei motivi è la difficoltà di trovare prodotti tipici del Mediterraneo (o il loro alto costo in paesi in cui tali prodotti devono essere importati), un altro motivo è paradossalmente proprio la semplicità.
Spesso all'estero (soprattutto nei paesi anglosassoni) si pensa che un piatto buono debba essere ricco di ingredienti, e non si resiste alla tentazione di aggiungerne per rendere i piatti più complessi, oppure per non dare l'impressione di un piatto preparato con noncuranza agli occhi dei clienti (nel caso di un ristorante). Anche la distinzione tutta italiana tra "primo" e "secondo" piatto non aiuta allo scopo, soprattutto in questi paesi dove l'abitudine ad un piatto unico è ben radicata.
Così i primi di pasta molto semplici vengono evitati o presentati in modo più "ricco", aggiungendo ingredienti. Ad esempio la pizza Margherita viene raramente acquistata se confrontata con le altre pizze più invitanti del menù, quindi si aggiunge qualche ingrediente, anche se leggero; senza considerare le salsine (ad esempio la salsa d'aglio) che vengono date insieme alla pizza (pratica, questa, del tutto assente nella cucina italiana). Proprio l'aglio è spesso spacciato come ingrediente tipico della cucina italiana (creme all'aglio, pane all'aglio etc.) laddove la cucina di nessuna regione italiana ne fa un uso così intenso come apparentemente emerge dai ristoranti all'estero.
Un'altra caratteristica della cultura e cucina italiana è quella di non considerare su due livelli diversi la carne e i vegetali, ma tutti sono ingredienti della stessa importanza da abbinare con serenità. In molti paesi la carne è più importante e quindi un pasto senza carne è considerato povero, per cui è più difficile trovare i tipi di pasta senza carne anche a costo di aggiungere carne di pollo, quasi mai usata per un primo in Italia.


Canestrato

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In basso forme di canestrato al pepe sovrastate da forme di provola appese a stagionare



Il Canestrato, o in siciliano Canistratu e più raramente Tumazzu o Picurinu, è un formaggio a pasta dura di latte vaccino misto a latte pecorino o anche caprino prodotto in tutta la Sicilia, dove assume anche nomi diversi legati a produzioni specifiche o locali d'eccellenza come ad esempio canestrato vacchino o canestrato dei Nebrodi.
Il Canestrato rientra nell'elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT) stilato dal Ministero delle Politiche agricole e forestali (Mipaaf).
In Italia il termine canestrato si riferisce anche a diversi altri formaggi che nell'ambito della loro produzione prevedono l'uso di un canestro di giunco come ad esempio il canestrato pugliese o il canestrato di Moliterno.


Storia

Citazioni del canestrato si trovano in alcuni contratti di gabella siciliani risalenti al 1400. Troviamo testimonianza del 1407 nel calmiere dei latticini dove è citato come tumazza e in un calmiere del 1412 citato come cacio vacchino. Un ulteriore riscontro si ha in una citazione nella dieta del 1562 delle monache del monastero di San Castrenze a Monreale (Palermo). La particolarità della mistura di latte del canestrato si fa risalire alla necessità dei mandriani di bovini di utilizzare il latte in eccesso delle pecore al seguito della mandria durante il periodo primaverile.


Nome

Il termine canestrato fa riferimento ai canestri di giunco utilizzati per produrre e conservare il formaggio. Vengono però localmente utilizzati anche altri nomi, come tumazzu o primosale, che fanno riferimento al grado di stagionatura.


Caratteristiche

Forma

Il canestrato ha una forma cilindrica con facce piane e talvolta concave, derivata dal canestro in cui viene prodotto. La crosta esterna è di colore bianco-giallognolo e su di essa sono evidenti i solchi lasciati dai giunchi che formano il canestro. Il canestrato è prodotto in forme che pesano tra i 4 ed i 14 chilogrammi. L'altezza dello scalzo varia dagli 8 ai 45 centimetri.



Caratteristiche organolettiche

Il sapore e il colore della pasta dipendono dalla stagionatura del canestrato. Il Canestrato fresco è molto morbido e ha un gusto dolce con un colore molto chiaro tendente al giallo paglierino. Il Canestrato stagionato ha invece un sapore piccante e un profumo pungente, si presenta con una pasta più dura e compatta dal colore giallo più scuro tendente al marroncino.



Produzione

Lavorazione

Si usa latte di vacca misto a latte intero crudo di pecora e (o in alternativa) di capra; microflora naturale e caglio in pasta di agnello o capretto. Il latte viene fatto coagulare in una tina di legno alla temperatura di 35° con caglio in pasta. La cagliata viene poi rotta e spurgata con le mani dopo essere stata adagiata sulle fascere, o in siciliano fascedde, nient'altro che i tradizionali canestri di giunco che danno al canestrato la sua tipica forma lasciando i solchi sui lati del formaggio.
Nella seconda fase la cagliata viene cotta con la scotta calda a 80°. Le forme sono poi sistemate sul tavoliere di legno per la fase fase di spurgo e di acidificazione cui seguirà la salatura.

Salatura e stagionatura

Le forme destinate al consumo immediato, dopo la fase di spurgo e di acidificazione, non vengono salate. Queste forme sono chiamate tuma. Le forme da stagionare, invece, sono salate a secco per dieci giorni consecutivi e poi di nuovo, una volta alla settimana, per i successivi mesi necessari alla stagionatura. Il Canestrato ha tre tipi di stagionatura: da 8 a 10 giorni per il primosale, da 2 a 4 mesi per il secondosale (o semistagionato) e oltre i 4 mesi per lo stagionato. Il canestrato può prevedere o meno l'aggiunta di pepe nero in grani o peperoncino. La stagionatura avviene su ripiani di legno in locali freschi e ventilati. Talvolta avviene in cantine e grotte naturali con pareti geologicamente naturali.


Pane di Matera

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Il pane di Matera è il pane ottenuto mediante un antico sistema di lavorazione, tipicamente utilizzato dai panificatori della provincia di Matera. Tale sistema prevede l'utilizzo esclusivo di semola di grano duro.

Storia

Il pane di Matera, con il suo sistema di lavorazione, ha una lunghissima tradizione risalente al Regno di Napoli ed anche oltre, come confermato da numerose ed autorevoli fonti storiche. È da sempre alimento tipico del territorio materano, tradizionale zona di coltivazione di cereali, come risulta anche da diverse testimonianze artistiche e letterarie che attestano l'importanza ed il culto del pane nella vita e nell'economia di tutto il territorio. Particolarmente suggestivo il rito dei tre tagli impressi con il coltello all'impasto, che rappresentavano la Santissima Trinità; gesto di profonda devozione con cui le famiglie ringraziavano Dio per la possibilità di usufruire di questo bene primario.


Zona di produzione

La zona di produzione del pane di Matera è costituita da tutto il territorio della provincia di Matera; tuttavia il tipico pane a forma di cornetto è prodotto principalmente nel comune di Matera stessa e nei paesi dell'alta provincia materana (Montescaglioso, Irsina, Tricarico, Grassano, Grottole). Nei paesi della bassa provincia materana come Montalbano Jonico, Tursi, Pisticci si produce il pane di forma rotonda, leggermente diverso in termini di sapore e consistenza rispetto al tipico pane materano.


Caratteristiche del prodotto

Il pane di Matera deve avere le seguenti caratteristiche:
  • Forma a cornetto oppure a pane alto;
  • Pezzatura da 1 o 2 kg;
  • Spessore della crosta di almeno 3 mm;
  • Mollica di colore giallo paglierino con caratteristica alveolazione;
  • Umidità non superiore al 33%.
La scelta di vecchie varietà di grano, che conservano, nel loro patrimonio genetico, caratteristiche non presenti in altre, dà luogo a farine che trasferiscono al pane il gusto ed il sapore unico che lo contraddistinguono. Si aggiungano il processo di lavorazione e, nello specifico, la realizzazione del lievito madre, che, prodotto con frutta fresca, aggiunge ulteriori e particolari sensazioni di gusto.


Produzione

Il prodotto si ottiene mediante l'antico processo di produzione che prevede l'utilizzo di lievito madre, semola di grano duro, sale e acqua. Parte delle semole da utilizzare per la produzione deve provenire da vecchie varietà coltivate nel territorio della provincia di Matera quali Cappelli, Duro Lucano, Capeiti, Appulo. Può essere cotto sia nel forno a legna che nel forno a gas. Il prodotto ottenuto, grazie agli ingredienti utilizzati ed alla specificità del processo di lavorazione, si caratterizza per un colore giallo, una porosità tipica e molto difforme (con pori, all'interno del pane, del diametro variabile da 2–3 mm. fino anche a 60 mm), un sapore ed un odore estremamente caratteristici. La conservabilità del pane, così ottenuto, può raggiungere i 7 giorni di tempo per le pezzatura da 1 kg ed i 9 giorni per la pezzatura da 2 kg




Pane di Altamura

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Il pane di Altamura è un prodotto di panetteria tradizionale di Altamura, nella città metropolitana di Bari.
È ottenuto dall'impiego di semole (molto ricca di glutine) rimacinate di varietà di grano duro coltivato nei territori dei comuni della Murgia.
Nel luglio 2003, a livello europeo, al pane di Altamura è stato riconosciuto il marchio denominazione di origine protetta (DOP).


Storia

Caratteristiche

Cotto nei tradizionali forni a legno e in pietra, il pane di Altamura si distingue per la sua fragranza, il suo sapore ed il suo aroma. Ha una crosta molto croccante e una mollica soffice di colore giallo paglierino. Si presenta sotto due forme tradizionali; la prima denominata localmente «U sckuanéte» (pane accavallato), è alta, accavallata, l'altra più bassa, localmente denominata «a cappidde del padre de simone» (a cappello di prete).


Zona geografica

L'area geografica delimitata dove sono coltivati i grani comprende i territori dei Comuni di Altamura, Gravina di Puglia, Poggiorsini (Spinazzola e Minervino Murge nella provincia di Barletta-Andria-Trani). La zona di produzione del pane di Altamura comprende soltanto il territorio amministrativo del Comune di Altamura, nella città metropolitana di Bari.


Fasi di produzione

«Pane di Altamura» è un prodotto di panetteria ottenuto dal rimacinato di semola di grano duro, ricavato dalla macinazione di grani duri delle varietà «appulo», «arcangelo», «duilio» e «simeto» prodotte nel territorio delimitato dal disciplinare di produzione, da sole o congiuntamente in ragione almeno dell'80%, purché prodotte nel medesimo territorio. Il prodotto si ottiene secondo l'antico sistema di lavorazione che prevede l'uso di lievito madre o pasta acida — sale marino — acqua.
All'atto dell'immissione al consumo deve presentare le seguenti caratteristiche: la pagnotta dal caratteristico profumo di peso non inferiore a 0,5 kg, la crosta deve possedere uno spessore non inferiore a 3 mm.; la mollica, di colore giallo paglierino, presenta una omogenea alveolazione; l'umidità non deve superare il 33 %.


Arancino

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L'arancino, o arancina, (in siciliano arancinu o arancina) è una specialità della cucina siciliana. Come tale, è stata ufficialmente riconosciuta e inserita nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali italiani (PAT) del Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali (MiPAAF) con il nome di "arancini di riso".
Si tratta di una palla o di un cono di riso impanato e fritto, del diametro di 8–10 cm, farcito generalmente con ragù, piselli e caciocavallo, oppure dadini di prosciutto cotto e mozzarella. Il nome deriva dalla forma originale e dal colore dorato tipico, che ricordano un'arancia, ma va detto che nella Sicilia orientale gli arancini hanno più spesso una forma conica.

Etimologia

Nella parte occidentale dell'isola questa specialità è conosciuta come "arancina", mentre nella parte orientale è chiamata "arancino". Secondo lo scrittore Gaetano Basile la pietanza dovrebbe essere indicata al femminile, in quanto il nome deriverebbe dal frutto dell'arancio, l'arancia appunto, che in lingua italiana è al femminile. Tuttavia in siciliano la declinazione al femminile dei frutti non è frequente quanto in italiano, e nel caso specifico l'arancia viene detta arànciu. Pertanto in siciliano il nome di questa pietanza è originariamente al maschile (arancinu), come testimoniato dal Dizionario siciliano-italiano del palermitano Giuseppe Biundi, che nel 1857, al lemma arancinu, scrive: "[...] dicesi fra noi [in Sicilia] una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia".
Il termine della lingua italiana arancino deriverebbe dal siciliano arancinu.

Storia



Arancini dalla zona di Messina a forma conica.






Le origini dell'arancino sono molto discusse. Essendo un prodotto popolare risulta difficile trovare un riferimento di qualche tipo su fonti storiche che possano chiarire con esattezza quali le origini e quali i processi che hanno portato al prodotto odierno con tutte le sue varianti.
In assenza di fonti specifiche, quindi, alcuni autori si sono cimentati nell'immaginarne le origini a partire dall'analisi degli ingredienti che costituiscono la pietanza. Così, per via della presenza costante dello zafferano, se ne è supposta una origine alto-medioevale, in particolare legato al periodo della dominazione musulmana, epoca in cui sarebbe stato introdotto nell'isola l'usanza di consumare riso e zafferano condito con erbe e carne. L'invenzione della panatura nella tradizione a sua volta viene spesso fatta risalire alla corte di Federico II di Svevia, quando si cercava un modo per recare con sé la pietanza in viaggi e battute di caccia. La panatura croccante, infatti, avrebbe assicurato un'ottima conservazione del riso e del condimento, oltre ad una migliore trasportabilità. Si è supposto che, inizialmente, l'arancino si sia caratterizzato come cibo da asporto, possibilmente anche per il lavoro in campagna.
Non mancano piuttosto le fonti relative al termine, arancinu, la cui più antica pare essere il Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino di Michele Pasqualino edito a Palermo nel 1785, in cui è riportato alla voce corrispondente "del colore della melarancia, rancio, croceus". Curiosamente, poco oltre il Pasqualino riporta che il termine arancia era riferito all'albero di citrus × aurantium, mentre aranciu al suo frutto, contrariamente a come avviene nella lingua italiana.
Da questa edizione fino alla metà del XIX secolo il lemma arancinu indicava prevalentemente un tipo di colore.
La prima documentazione scritta che parli esplicitamente dell'arancinu in qualità di pietanza è il Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi, il quale testimonia la presenza di "una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia". Questo dato può indurre a credere che l'arancino nascesse come dolce, presumibilmente durante le festività in onore di santa Lucia, e solo in seguito divenisse una pietanza salata. In effetti pare che i primi acquisti di uno degli elementi tipici costituenti l'arancino salato, il pomodoro, siano datati al 1852, cinque anni prima l'edizione del Biundi: la diffusione di tale ortaggio e il suo uso massiccio nella gastronomia siciliana si deve ipotizzare sia successiva a tale data e - verosimilmente - nel 1857 non era ancora divenuto parte dell'arancino. L'assenza di riferimenti precedenti al Biundi potrebbe in realtà essere indice di una relativa "modernità" del prodotto, certamente comunque nella sua versione salata.
Sulla origine della versione dolce pure permangono notevoli dubbi: l'accostamento con santa Lucia e i prodotti tipici legati ai suoi festeggiamenti apre diverse possibilità di interpretazione. A Siracusa, secondo la tradizione, nel 1646 approdò una nave carica di grano che pose fine ad una grave carestia, evento ricordato con la creazione della cuccìa, un prodotto a base di chicchi di grano non macinato, miele e ricotta. Non è impensabile quindi che i primi arancini dolci siano una versione da trasporto della stessa cuccìa. In merito al legame tra i due prodotti e i festeggiamenti luciani, ancora oggi il 13 dicembre di ogni anno, è tradizione palermitana quanto trapanese, festeggiare il giorno di santa Lucia, in cui ci si astiene dal consumare cibi a base di farina, mangiando arancini (di ogni tipo, forma e dimensione) e cuccìa.
In merito alla diffusione di questo prodotto nel mondo, si possono rintracciarne le origini nel fenomeno della emigrazione di siciliani all'estero, almeno nella sua fase iniziale, che fondarono rosticcerie nei luoghi in cui si stabilirono portando con sé i prodotti regionali. Un secondo fenomeno è dovuto alla creazione di rosticcerie di qualità in Italia e all'estero da parte di cuochi affermati e imprenditori siciliani.


Nella cultura di massa

L'arancino è considerato dai siciliani il prodotto di rosticceria più caratteristico della propria regione e quasi tutte le grandi città ne rivendicano la paternità. Questo atteggiamento fortemente campanilistico ha spesso acceso discussioni che oggi si sono diffuse a livello popolare anche grazie ai canali virtuali di discussione sociale, come blog, forum e altre forme di social network. In particolare nel comprensorio catanese si sostiene che la forma a cono si debba ad una ispirazione data dall'Etna: infatti tagliandone la punta esce dall'arancino il vapore che ricorderebbe il fumo del vulcano, mentre la superficie croccante della panatura e il rosso del contenuto ne rievocherebbero la lava nei suoi due stadi, calda e fredda. Sempre nel catanese, la forma a palla del prodotto ha generato un accostamento con le persone corpulente, definite con tono di scherno arancinu che' peri (arancino con i piedi, ossia arancino che cammina), per indicare una persona particolarmente rotonda.
Nella letteratura appaiono diversi riferimenti a questo prodotto gastronomico. Il personaggio dei romanzi di Andrea Camilleri - il commissario Montalbano, nella finzione letteraria noto estimatore di questo piatto - è forse il più popolare tra essi e uno dei racconti dell'autore siciliano è persino intitolato Gli arancini di Montalbano e quasi per intero dedicato alla passione del commissario per tale pietanza.



Preparazione

Per la preparazione si fa cuocere al dente il riso originario in abbondante brodo fino a completo assorbimento. Si fa raffreddare su un piano di marmo. Formati dei dischi di questo impasto, si pone al centro di ciascuno una porzione di farcitura e si chiudono. Successivamente si passano in una pastella fluida di acqua e farina e si impanano nel pangrattato, pronti per essere fritti.
A Palermo e Catania è molto diffuso l'uso dello zafferano per dare un colorito dorato al riso, molto compatto e nettamente separato dalla farcitura, contrariamente a quanto succede nella zona di Messina, dove si utilizza il sugo insieme allo zafferano.
In ogni caso la ricetta originale degli arancini non prevede l'uso delle uova, né per il ripieno (l'originario infatti contiene molto amido e non necessita di uova per essere legato), né per la panatura.


Tipologie

L'arancino più diffuso in Sicilia è quello al ragù di carne (per praticità, un sostituto dell'originale sugo), quello al burro (con mozzarella, prosciutto e, a volte, besciamella) e quello agli spinaci (condito anch'esso con mozzarella). Inoltre, nel catanese sono diffusi anche l'arancino "alla norma" (con melanzane, detto anche "alla catanese") e quello al pistacchio di Bronte. La versatilità dell'arancino è stata sfruttata per diverse sperimentazioni. Esistono infatti ricette dell'arancino che prevedono, oltre ovviamente al riso, l'utilizzo di funghi, salsiccia, gorgonzola, salmone, pollo, pesce spada, frutti di mare, pesto, gamberetti nonché del nero di seppia (l'inchiostro). Ne esistono varianti dolci: gli arancini vengono preparati con il cacao e coperti di zucchero (solitamente in occasione della festa di santa Lucia); ce ne sono alla crema gianduia (soprattutto nella zona di Palermo) e al cioccolato, nonché all'amarena. Per facilitare la distinzione tra i vari gusti, la forma dell'arancino può variare.
In Campania l'arancino prende il nome di palla di riso (pall'e riso) ed è rotondo e solitamente di dimensioni più piccole. È ripieno di riso al sugo o al ragù con aggiunta di piselli, carne e mozzarella.


Asiago

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Il formaggio Asiago è un prodotto caseario di latte di vacca a pasta semi-cotta e a denominazione di origine protetta.


Storia

La storia del formaggio Asiago si perde in quella delle popolazioni dell'Altopiano di Asiago, da cui trae il nome. Convenzionalmente la sua origine si fa risalire intorno l'anno Mille, essendo rarissime le testimonianze, provenienti dall'altopiano asiaghese, relative ai secoli precedenti.
Tra il decimo ed il quindicesimo secolo nell'altopiano dei Sette Comuni, fertilissimo di buone erbe, l'allevamento ovino era l'attività predominante. Grazie ad esso si produceva un gustoso formaggio di latte di pecora e si ricavava la lana destinata alle attività tessili, artigianali prima ed industriali poi, delle valli dell'Alto Vicentino.
Con la modernizzazione delle tecniche, intorno al 1500 gli allevamenti bovini cominciarono gradualmente a sostituire quelli ovini. Tale sostituzione si completò definitivamente solo attorno al XIX secolo. In tale periodo la tecnica casearia, che ancor oggi si conserva nelle malghe altopianensi, venne notevolmente affinata e si trasferì anche nei piccoli e medi caseifici, disseminati nella zona di produzione.
La produzione dell'Asiago, prevalente fin a metà Ottocento sull'altipiano omonimo, si estese poco a poco anche nella parte pedemontana, nelle zone di pianura limitrofe e nelle vicine malghe trentine. La causa principale di tale diffusione fu l'ingente spopolamento dell'Altopiano dei Sette Comuni, dovuto all'utilizzo del territorio quale linea di fronte durante la prima guerra mondiale. In quel periodo, si produceva solo l’Asiago d'allevo (detto nel dialetto locale “pegorin”), le cui forme, fragranti a seconda della lavorazione e della maturazione, venivano tagliate solo dopo mesi di stagionatura.
Negli anni venti cominciò invece la produzione di un formaggio Asiago a più breve stagionatura, chiamato Asiago pressato, le cui forme, appena prodotte, sono sottoposte ad una pressatura sotto torchi manuali od idraulici. Si tratta di una variante tecnologica che veniva già adottata nelle malghe o negli alpeggi, soprattutto nel primo periodo di monticazione del bestiame. Questo prodotto "nuovo" ha incontrato il gusto del consumatore moderno, che privilegia i sapori dolci e morbidi.
Nel 1955 il formaggio Asiago ottenne la Denominazione Tipica e, successivamente, con il D.P.R. del 21 dicembre 1978, la Denominazione d'Origine Protetta.
Nel 1979 nacque il "Consorzio per la tutela del formaggio Asiago", creato da 56 caseifici sociali per salvaguardare le caratteristiche della produzione casearia, con lo scopo di perfezionare qualitativamente e quantitativamente il formaggio, di promuoverlo commercialmente e di vigilare sul corretto uso delle denominazioni, dei contrassegni e dei marchi consortili, gestendo le eventuali azioni giudiziarie per reprimere abusi e irregolarità.
Il secolo attuale portò fama e fortuna all'Asiago; s'incominciò a produrlo in quantità sempre maggiori, cosicché il mercato poté disporre di prodotto sufficiente a soddisfare la sempre crescente richiesta.
Oggi l'Asiago è il quarto formaggio DOP di latte bovino del nostro Paese, per quantità prodotta. Il formaggio Asiago è conosciuto da oltre il 95% degli italiani. La strada che ha portato dalle 7.100 tonnellate iniziali alle oltre 23.000 attuali ha costituito una crescita che trova pochi riscontri nel settore e che ha generato negli anni una redditività della filiera del latte, la quale ha consentito, anche attraverso il fenomeno aggregativo cooperativo (latterie sociali), la continuazione di allevamenti di piccole dimensioni (fattorie a conduzione familiare).



Zone di produzione

La produzione di formaggio Asiago è oggetto di tutela D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta), deve quindi avvenire all'interno di un territorio circoscritto e solo con materia lattea proveniente da allevamenti ricadenti nel suo ambito.
La zona di produzione dell'Asiago è identificata nelle province di Vicenza, Trento e in parti confinanti con esse di quelle di Padova e Treviso, corrispondenti alla loro fascia pedemontana, inclusiva dei prati irrigui circostanti le relative, copiose risorgive.
La produzione di Asiago è tipica dell'omonimo altipiano, in cui avviene in numerosi caseifici e, nella sola estate (per il tempo di vegetazione delle erbe spontanee), nelle caratteristiche malghe di proprietà privata o, più spesso, collettiva, in virtù di usi civici antecedenti la formazione del diritto statuale italiano e da esso recepiti come fonte normativa di tipo consuetudinario.
Le malghe sull'Altopiano dei Sette Comuni sono oltre 100 e costituiscono per estensione e per numero il più importante sistema d'alpeggio dell'intero arco alpino.



Dettagli Produzione

Il formaggio D.O.P. “Asiago” si produce solo con latte fornito da bovini allevati nelle zone dove risiedono i caseifici produttori situati in (vedi mappa):
  • Provincia di Vicenza: tutto il territorio.
  • Provincia di Trento: tutto il territorio.
  • Provincia di Padova: il territorio dei comuni di Carmignano di Brenta, S. Pietro in Gù, Grantorto, Gazzo, Piazzola sul Brenta, Villafranca Padovana, Campodoro, Mestrino, Veggiano, Cervarese S. Croce e Rovolon.
  • Provincia di Treviso: il territorio così delimitato: prendendo come punto di riferimento il paese di Rossano Veneto, in provincia di Vicenza, il limite segue la strada Rossano – Castelfranco Veneto fino al suo incrocio con la strada statale n. 53 “Postumia”. Esso costeggia tale strada, attraversa la tangenziale sud di Treviso, fino alla sua intersezione con l'autostrada di Alemagna. Il limite prosegue a nord lungo il tracciato di detta autostrada fino al fiume Piave. Piega quindi ad ovest lungo la riva destra di detto fiume fino al confine della provincia di Treviso con quella di Belluno. Da questo punto il limite si identifica con il confine della provincia di Treviso fino al punto di incontro di questo con il confine della provincia di Vicenza.



Il consorzio per la tutela del formaggio Asiago

Il Consorzio nasce a Vicenza il 26 giugno 1979 con lo scopo di tutelare la produzione della specialità casearia dell'Altopiano di Asiago e dei Sette Comuni dalle imitazioni estere che invadevano il mercato.
Oggi il Consorzio per la tutela del formaggio Asiago conta 5 soci stagionatori e 41 soci produttori. La filiera produttiva dell'Asiago è costituita da oltre 1630 aziende agricole, con una produzione di latte trasformata annualmente in Asiago DOP superiore a 2,1 milioni di quintali.



Tipologie

Il formaggio Asiago viene sostanzialmente prodotto in due tipi diversi: pressato (fresco) e d'allevo (stagionato) che a sua volta a seconda della durata della stagionatura si divide in tre categorie.
Asiago pressato: viene prodotto utilizzando latte intero. Viene lavorato a pasta semicruda e durante la prima cottura del latte a 35 °C si aggiungono fermenti specifici e caglio liquido. Ottenuta la cagliata, si procede a liberarla dal siero ed a romperla a dimensione di un guscio di noce, quindi, si cuoce nuovamente a 45 °C circa. Dopo questa operazione si esegue una prima salatura a secco e si ripone la pasta in appositi stampi a pareti forate; a questo punto la forma viene pressata con un torchio, solitamente idraulico, per circa quattro ore.
Successivamente le forme vengono avvolte lateralmente con fascere di plastica, che imprimono il marchio Asiago attorno a tutta la forma e vengono messe in un locale, chiamato "frescura", per 2-3 giorni ad asciugare. Si tolgono le fascere per eseguire l'ultima salatura mediante un bagno in salamoia per altri due giorni ed infine si mettono le forme a maturare per un periodo che va dai 20 ai 40 giorni. Il formaggio finito si presenta con forma cilindrica dal diametro di 30–40 cm e l'altezza di circa 15 cm. Il peso medio di una forma è di 11–15 kg.
La crosta è sottile ed elastica; la pasta interna è morbida, burrosa, di colore bianco o leggermente paglierino e con occhiatura irregolare. Il sapore dolce e delicato, ricorda la panna ed il latte appena munto. Ottimo come formaggio da tavola, si presta egregiamente anche a molteplici ricette.
Asiago d'Allevo: lavorato a pasta semicotta, con latte vaccino proveniente da due mungiture, mattutina e serale, di cui una scremata per affioramento naturale. Per questo tipo di Asiago, la cagliata viene rotta con un apposito strumento chiamato "spino" così da raggiungere la dimensione di un chicco di riso; successivamente la cagliata viene cotta altre due volte prima a 40 °C e poi a 47 °C. A questo punto il prodotto grezzo, dopo essere stato posto nelle fascere che imprimono il marchio Asiago, è salato in leggera salamoia e messo a stagionare.
La durata della stagionatura darà luogo alla denominazione di vendita:
  • Asiago mezzano, stagionato per 3-8 mesi. La pasta è compatta, anche se ancora abbastanza morbida, di colore paglierino abbastanza intenso, con occhiatura di piccola e media grandezza, molto gustoso ma ancora dolce. Ottimo formaggio da tavola, magari abbinato a delle buone pere mature.
  • Asiago vecchio, stagionato per 9-18 mesi. A pasta dura, compatta, di colore paglierino, con occhiatura media e sapore deciso, tendente al piccante.
  • Asiago stravecchio, stagionato per due anni o più. La pasta è molto dura, granulosa, di colore paglierino, con occhiatura abbastanza piccola. Il sapore è intenso, avvolgente, penetrante. Questo formaggio è un'autentica e rara "perla" per i buongustai, soprattutto se l'affinamento si protrae per oltre due anni donando al formaggio un sapore unico. Straordinario abbinato alla polenta, ai funghi e a vini rossi importanti.
Si usano localmente varie altre denominazioni, come mezzanello (dolce o piccante), che si riferisce al grado di stagionatura e ai caratteri organolettici, che diventano più marcati con il protrarsi della maturazione; vezzena, sostanzialmente un asiago d'allevo prodotto nel contiguo altopiano delle Vezzene, e altre ancora, in genere collegate al caseificio di produzione.
Il prodotto finito, ha forma cilindrica con 30–35 cm di diametro e circa 10 cm di altezza; il peso di ogni forma varia dagli otto ai 12 chilogrammi. La crosta è sottile ma dura, liscia e regolare, di colore ambrato nel mezzano e bruno nel vecchio e stravecchio. Anche la pasta interna ed il sapore sono molto diversi a seconda della stagionatura e meritano quindi descrizioni separate.



Identificazione

Al formaggio viene posta una marcatura all'origine costituita da una serie di scritte "ASIAGO" e dal logo della DOP impressi sul bordo (scalzo) del formaggio, che ne attestano l'origine. Presenta inoltre un numero di matricola impresso sullo scalzo di ogni forma per identificare il caseificio produttore. Tutte le forme di Asiago sono numerate: dal numero si può risalire alla data di produzione, ai dati della lavorazione, ai nominativi degli allevatori produttori di latte.


Conservazione

La fetta deve essere tagliata perfettamente, avvolta nella pellicola, a temperature di 8-9 °C. L'asiago fresco si conserva meno di quello d'allevo, per cui si consiglia di consumarlo più velocemente. Quello d'allevo se è "stravecchio" si conserva con buoni risultati avvolto in una tela, anche a temperature più elevate.


Abbinamenti enogastronomici

L'Asiago fresco, per la sua delicatezza, richiede vini altrettanto delicati, bianchi freschi e leggeri o rosati morbidi e leggeri. Se servito come aperitivo può essere accompagnato anche spumanti secchi. Alcuni esempi: Valpolicella classico, Vernaccia di San Gimigniano, Biferno rosato, Franciacorta spumante brut. Per l'Asiago d'allevo la scelta del vino è in funzione della sua stagionatura, quindi più è stagionato più serve un vino strutturato. Alcuni esempi: Cabernet Colli Berici, Colli del Trasimeno rosso, Solopaca.
L'Asiago stagionato esalta le sue migliori caratteristiche con vini rossi fermi e di medio corpo, in particolare di vini DOC prodotti in Veneto. Alcuni esempi sono il Bardolino Superiore, il Merlara Rosso ed il Pinot Nero di Vicenza, dagli odori delicati e sapori asciutti e sapidi.



Valori nutritivi

Il contenuto proteico nell'Asiago è superiore a quello che si trova in un'eguale quantità di carne e varia da una media del 24% per l'Asiago fresco e del 28% per l'Asiago allevo. Per quanto riguarda i grassi, anche qui il contenuto si differenzia a seconda del tipo. L'Asiago fresco ha una percentuale di grassi sulla sostanza secca del 46-48%; l'Asiago stagionato del 42-44% (fonte: Istituto Lattiero Caseario e di Biotecnologie Agroalimentari di Thiene). Inoltre, il contenuto in colesterolo è modesto in rapporto alla percentuale di grassi. I sali minerali compresenti nella composizione del latte (calcio e fosforo) si conservano largamente nel formaggio, dove si aggiunge - nella lavorazione - il cloruro di sodio (sale) in quantità variabile a seconda che si tratti di una pasta più o meno "dolce", da 1,5gr/100gr. dell'Asiago fresco a 2,5gr/100gr. dell'Asiago stagionato. Il ph assume valori attorno al 5,50-5,60, confermando che l'Asiago è formaggio "dolce" poco fermentato, con abbondante presenza di fermenti lattici vivi, nel caso del tipo fresco, stante la breve stagionatura. Contiene vitamine in significative quantità del tipo A, B, B2, e PP. Contenuto calorico: 382 calorie per l'Asiago stagionato e 368 per l'Asiago fresco su 100gr di prodotto.
Asiago 1 porzione pari a 28 g fornisce:
  • Energia: 110 calorie (460 kJ)
  • Proteine: 7,5 g
  • Carboidrati: 0,67 g
  • Grassi totali: 8,7 g
  • Fibre: 0,0 g
  • Eccellente fonte di: Calcio (226 mg)
  • Buona fonte di: Fosforo (145 mg)





 
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