Bammy

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Il bammy o bami è un pane basso tipico giamaicano.

Il bammy viene realizzato con la manioca amara, che viene grattugiata, pressata, battuta con un mortaio, ed infine setacciata per ottenere una farina. Alla farina viene aggiunto il sale ed eventualmente - soprattutto nella preparazione domestica - burro e spezie, ed il composto viene poi cotto su una piastra per tre minuti. In alternativa, prima della cottura l'impasto può essere inzuppato nel latte di cocco, e può anche essere fritto o cotto al forno.

Viene utilizzato sia come contorno che come snack. Tipicamente accompagna l'Escovitch fish, l'Ackee and saltfish, ed in generale i piatti a base di pesce.

Il piatto deriva dalla focaccia di manioca che consumavano gli Aruachi.

Tradizionalmente diffuso nelle campagne, a partire dal secondo dopoguerra il suo consumo conobbe un rapido declino, in favore del pane di farina di frumento, più economico. Solo a partire dal 1992, grazie ad un progetto della FAO in collaborazione con il governo giamaicano, si riuscì a rilanciare il prodotto: la produzione riprese rapidamente e già alla fine degli anni Novanta il bammy era tornato ad essere molto diffuso in tutto il paese.





Abbacchio

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L'abbacchio è un agnello giovane, lattante o slattato da poco, destinato al macello.

  • quella puramente etimologica lo fa risalire ad abecula o avecula, a sua volta derivante da ovacula o ovecula, diminutivo del latino ovis (pecora);

  • un'interpretazione popolana fa derivare il termine da ad baculum, "vicino al bastone", ad indicare l'agnello da latte, non ancora svezzato e che, in quanto tale, si usa tutt'oggi legare ad un bastone conficcato nel terreno (ad baculum), al fine di costringere la madre a rimanere nei pressi senza allontanarsi;

  • un'altra interpretazione popolana la fa originare dal termine abbacchiare, nel senso di abbattere, uccidere con il bastone (dal latino baculum, quindi un agnello che è prossimo all'abbattimento "ad baculum", "vicino al bastone"). Questo verbo è tuttora in uso nel dialetto romanesco e da lì nell'uso colloquiale della lingua italiana, soprattutto con il participio passato e aggettivo abbacchiato, nel senso di persona abbattuta, affranta, distrutta, fortemente dispiaciuta. L'abbattimento dell'agnello era solitamente effettuato mediante bastonata in testa e poi taglio della gola con coltello.

In tutta la fascia centrale dell'Italia, Sardegna compresa, la pastorizia era la principale fonte di approvvigionamento di carne: nell'antichità si macellavano soprattutto montone e pecora adulta. La macellazione dell'agnello era vietata, tranne che nel periodo di Pasqua e fino a giugno.

Gli agnelli o abbacchi originariamente erano destinati alla mensa dei giudei e a quella dei meno abbienti, perché la loro carne era considerata di basso livello. Oggi la tradizione culinaria laziale, abruzzese e sarda della carne ovina è soprattutto rivolta all'agnello, che viene offerto non solo nel periodo pasquale (quando la macellazione di tali ovini è detta sbacchiatura), ma anche durante le festività natalizie.

La maggior parte dell'agnello è di produzione italiana, ma esiste una quota significativa (congelata) di importazione neozelandese.





Arròs negre

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L'arròs negre, in valenzano, o arroz negro, in spagnolo (riso nero), è un piatto della cucina spagnola, tipico della costa della provincia di Alicante e del quartiere marittimo di Castellón de la Plana, nella Comunità Valenzana. È inoltre diffuso sul litorale della Catalogna.

A causa della sua somiglianza con la paella, il piatto viene anche soprannominato paella negra. È popolare anche a Cuba e a Porto Rico, dove è noto come arroz con calamares. Nelle Filippine, dove è considerato un sottotipo della specialità locale conosciuta come paelya, è noto come paella negra o paelya negra.

Il piatto è così denominato perché uno degli ingredienti, che gli conferisce il caratteristico colore, è il nero di seppia: l'accompagnamento di questo "inchiostro" con il riso è in uso anche in altre cucine del Mar Mediterraneo, come nel risotto al nero di seppia italiano.

La ricetta tradizionale dell'arròs negre richiede nero di seppia o di calamaro, riso bianco, aglio, peperoni, cubanelle Sweet verdi, paprica dolce, olio di oliva e brodo di pesce. Tuttavia, molti cuochi aggiungono altri frutti di mare, fra cui granchi e gamberetti.

La fideuà negra è una variante fatta impiegando dei piccoli spaghetti (paragonabili ai fedelini corti italiani al posto del riso e viene solitamente servita con aioli.

L'arròs negre non va confuso con il riso nero, il nome collettivo di diverse cultivar di riso che hanno un colore scuro.




Allo Tiki

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L'Allo Tiki è un comune antipasto o snack indiano. Si tratta di una sorta di polpetta di patate miste a spezie, fritta per immersione.

La parola indiana Allo, o Aloo, significa patata; mentre con la parola Tiki, o Tikki, si intende generalmente una piccola cotoletta o una crocchetta di dimensioni che possono variare tra i 6 e i 15 centimetri. A volte è preparata con un ripieno a base di piselli o lenticchie. Viene servito solitamente assieme a salsa chutney di tamarindo (saunth chutney) o di coriandolo e menta (hari chutney), a volte anche con uno yogurt locale chiamato dahi o con dei ceci. A Bombay è nota con il nome della variante locale Ragda pattice, e viene venduta da ambulanti, soprattutto sulla spiaggia di Chowpatti.

I McDonald's indiani includono nel loro menù il McAloo tikki burger, ovvero un classico panino farcito con allo tikki, anche se questa versione si distacca molto dal tradizionale piatto.








Carpaccio

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Con carpaccio si intende genericamente un piatto a base di fettine di carne o pesce crudi o semi-crudi, a cui vengono aggiunti olio o altri ingredienti (salse o scaglie di formaggio grana) a seconda della versione.

Descrizione

Il carpaccio proposto da Cipriani consiste in fettine sottilissime di controfiletto di manzo disposte su un piatto e decorate alla Kandinsky, con una salsa che viene chiamata universale. Trattandosi di un piatto da servire crudo, la carne deve sempre essere freschissima e mai decongelata.

Storia

Il nome del piatto si deve a Giuseppe Cipriani, proprietario e chef dell'Harry's Bar di Venezia, che un giorno del 1950 preparò il piatto, a base di carne cruda, appositamente per un'amica, la contessa Amalia Nani Mocenigo, quando seppe che i medici le avevano vietato la carne cotta. Il nome venne dato in onore del pittore Vittore Carpaccio, poiché a Cipriani il colore della carne cruda ricordava i colori intensi dei quadri del pittore, delle cui opere si teneva in quel periodo una mostra nel Palazzo Ducale di Venezia. Secondo alcuni il quadro del Carpaccio che avrebbe ispirato Cipriani sarebbe la Predica di santo Stefano (Museo del Louvre, Parigi).

«Se voi sfilettate della carne cruda, naturalmente freschissima e tagliata in fettine leggere come fosse un prosciutto, eccovi (con l’aggiunta di un tantino di salsa) il carpaccio. Con il carpaccio gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell’essere interamente svelato, nudo come mamma l’ha fatto. Per questo, non riconoscendone tante qualità, non amo la cucina francese, che predilige invece i cibi in maschera. Come è nato il carpaccio? Alla contessa Amalia Nani Mocenigo i medici avevano ordinato una dieta strettissima. Non poteva mangiare carne cotta e così, per accontentarla, pensai di affettare un filetto molto sottile. La carne da sola era un po’ insipida; ma c’era una salsa molto semplice che chiamo universale per la sua adattabilità alla carne e al pesce. Ne misi una spruzzatina sul filetto e, in onore del pittore di cui quell’anno a Venezia si faceva un gran parlare per via della mostra e anche perché il colore del piatto ricordava certi colori dell’artista, lo chiamai carpaccio.»
(Giuseppe Cipriani, “L’angolo dell’Harry’s Bar”, 1978)

Altre preparazioni

Nella cucina piemontese esiste un piatto tradizionale molto simile, la carne cruda all'Albese (considerata solo un antipasto e non anche un secondo piatto), che consiste di carne cruda di manzo, arricchita di una marinatura di olio di oliva, scaglie di parmigiano o tartufo bianco.

I carpacci di pesce

Altra preparazione di questo tipo è il Carpaccio di pesce, ove le fette di carne sono sostituite da sottili fette di filetto di pesce crudo, di solito pesce spada, baccalà, Tonno rosso o salmone, conditi con solo olio, sale e pepe, o anche con una marinatura.
Il termine "carpaccio" viene utilizzato anche per indicare ricette a base di pietanze cotte. È il caso ad esempio del carpaccio di polpo, la cui ricetta prevede la cottura del polpo prima del procedimento di preparazione del carpaccio.

A 24 anni un pizzaiolo sta cambiando uno dei quartieri più temibili di Napoli

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I turisti a Rione Sanità non sono ben visti. Ciro Oliva con la sua pizzeria vuole cambiare le cose.
"Non è un quartiere per turisti. Non tanto per gli scippi, quanto per le stese,infatti in preparazione al vostro arrivo Ciro ha dovuto avvertire, fare un po' di "bonifica" — se così la vogliamo chiamare."
È questa la risposta che ricevo quando mi rivolgo a un signore che è con me, cercando di capire quanto la realtà di quel luogo differisca dai racconti che se ne fanno. Sono a Napoli per la prima volta e dall'aeroporto di Capo di Chino mi sono trovata catapultata nel mezzo del Rione Sanità—un quartiere popolare della città conosciuto soprattutto per l'elevata emarginazione sociale e l'alta diffusione di episodi di violenza legati alla camorra.
I miei compagni di avventura sono una decina di giornalisti, critici e insider gastronomici, e il nostro bonificatore—nonché il motivo per cui siamo qui— è Ciro Oliva: 24 anni, sposato, padre, e gestore della pizzeria Concettina ai Tre Santi.
Da qualche tempo, la pizzeria ha conquistato una fama sempre maggiore e il plauso di critica e pubblico: mentre ogni sera al suo ingresso stazionano code di aspiranti clienti, sempre più riviste di settore le hanno rivolto l'attenzione, e la sua pizza si è posizionata al primo posto sulla Guida alle Pizzerie d'Italia del 2017 del Gambero Rosso.
Di pari passo, il personaggio di Ciro Oliva si sta ritagliando un posto sempre più rilevante nel mondo della gastronomia. Al di là degli ovvi meriti del prodotto, a giocare un ruolo in quest'ascesa ci sono una personalità estroversa, una storia particolare, e una comunicazione—che passa per i social e arriva a eventi come questi—curata nei minimi dettagli.
È esattamente dall'incontro tra questi tre fattori che nasce l'evento a cui mi trovo a partecipare—una giornata aperta alla stampa che prevede tour del rione e pranzo—con l'intenzione di capire il successo della pizzeria e cosa rende un ragazzo di 24 anni il simbolo di un quartiere e uno dei migliori pizzaioli d'Italia.
L'appuntamento è alle 10:30 in piazza Vergini, la piazza che delimita l'inizio del rione Sanità. Bastano pochi passi per capire che il tour del rione non è una trovata pubblicitaria, né di contorno rispetto al pranzo. Al contrario, ne è parte integrante: la storia di Concettina ai Tre Santi, così come quella di Ciro e della sua famiglia, è visceralmente legata al rione nel quale sorge, ed è impossibile comprenderla appieno se estrapolata da quel contesto.
Come ci racconta mentre ci addentriamo nel cuore del quartiere, Ciro è nato e cresciuto nel Rione Sanità, dove ancora vive. Ha cominciato a lavorare a Concettina ai Tre Santi, il ristorante di famiglia da quattro generazioni e aperto nel 1951, giovanissimo. A 14 anni la sua ambizione—che a quel tempo era rappresentata dalle mance—lo portava a consegnare pizze in giro per Napoli con una sola mano, mentre con l'altra reggeva il manubrio del motorino.
Crescendo, il ruolo di Ciro all'interno della pizzeria si è fatto sempre più importante, mentre l'ambizione lo portava a esplorare nuovi orizzonti.
"Avevo 18 anni, lavoravo in pizzeria, e come molti ragazzi di quell'età passavo un sacco di tempo su internet. Mi piaceva guardare cosa facevano i colleghi più bravi, come gestivano i loro social. Prendevo moltissimi spunti da loro. Piano piano ho cominciato a rivolgermi a persone che mi potevano aiutare, a cui chiedevo consulto su vari aspetti, dagli ingredienti all'arredamento, e la pizzeria si è piano piano evoluta," racconta.
Del resto, pure in un mondo molto competitivo come quello della gastronomia, basta ascoltarlo per immaginarsi come possa essere facile farsi trascinare dal suo entusiasmo. Mentre camminiamo per il rione, passando sotto la casa di Totò—venerato come un Dio—tra molti motorini, pochi caschi e panni stesi come nelle migliore delle cartoline di Napoli, Ciro si ferma a salutare tutti e con tutti scambia due parole. Dai giovani è trattato come una specie di divo, ed è palese che quel ruolo, come ammette lui stesso, lo inorgoglisce. Oltre a fargli sentire un forte senso di responsabilità.
Da circa un anno, data della sua apertura, Ciro investe tempo e denaro nella "Casa dei Cristallini" —un luogo in cui volontari e il parroco di zona organizzano attività extrascolastiche pomeridiane per i bambini del rione, che vanno dai corsi di fotografia a quelli di cucina.
Dall'ultimo piano del palazzo, in cui come ci ripetono più persone i turisti solitamente non sono ben visti, Ciro ci parla del rapporto con il rione e con i suoi abitanti, specialmente i più giovani. "Tutti i ragazzi che lavorano con me sono del Rione. Questi ragazzi stanno imparando un mestiere e lo stanno imparando ai massimi livelli: se la gente viene da me e scrive che la nostra pizzeria non ha nulla da invidiare ai ristoranti due stelle, vuol dire che fuori da qui hanno la possibilità di lavorare in un ristorante di alto livello, possono avere una carriera in questo campo," spiega
Ma il discorso va ben oltre l'aspetto professionale. Oltre al curriculum, i ragazzi che lavorano da Ciro costituiscono all'interno del rione un'immagine alternativa di successo. Grazie al loro lavoro nella pizzeria hanno i soldi per uscire dal rione, conoscere determinati ambienti, farsi le vacanze, comprarsi i vestiti, fare l'assicurazione del motorino. Piccole soddisfazione che Ciro si augura possano essere d'ispirazione per i loro coetanei e i più piccoli.
Dopo un giro di due ore e mezzo per il Rione e dopo aver conosciuto un po' la storia della pizzeria, arriva finalmente l'ora di pranzo.
Il posto è più piccolo di come lo avevo immaginato dai racconti, l'arredamento ricercato e al tempo stesso semplice, l'atmosfera tra i dipendenti tesa. Ragazzi tatuati in giacca e cravatta si muovono veloci mentre continuano ad arrivare nuovi ospiti—tra cui vari nomi di punta del settore—che si aggiungono al pranzo organizzato.
Alla fine siamo circa 20 persone, sedute attorno a un tavolo rettangolare. Ciro ci parla un po' dell'arredamento: giustifica la scelta del non usare le tovagliette, i bicchieri con il ginepro dentro, le sedie che rimangono uguali a come erano quando la pizzeria ha aperto per la prima volta. Sul fronte innovazione, invece, a tavola ci vengono consegnati degli occhiali 3D dai quali degli iPhone mostrano un video a 360 gradi di Ciro e i ragazzi intenti a fare una delle loro pizza.
Nelle due ore successive si svolge il pranzo: tra antipasti, le montanarine e assaggi di pizza, il menù prevede 12 portate, con sette vini in degustazione. In quasi tutti i piatti, ingredienti della cucina tradizionale vengono associati in modo innovativo.
Non avendo un palato particolarmente fine, mi limito ad apprezzare tutto quello che mi passa tra le mani e ad ascoltare le conversazioni che si svolgono attorno a me. I commenti sul cibo sono quasi sempre positivi, anche se nessuno dei presenti sembra voler perdere occasione per cercare di mettere in difficoltà camerieri e personale.
Ciro spunta di tanto in tanto dalla cucina (a vista) per spiegarci la portata successiva, con un entusiasmo e un lessico che rappresentano una boccata di freschezza al clima patinato che vige a tavola.
Quando, superato anche lo scoglio del dessert, il vino e cibo stanno prendendo il sopravvento e gli occhi stanno per cedere, nasce una conversazione che risveglia la mia attenzione. A tavola due invitati discutono del ruolo che gioca il rione nell'ascesa della pizzeria.
Se il primo sostiene che pizzeria di Ciro sia vittima della sua posizione, argomentando che all'interno del rione Sanità non potrà mai sperimentare quanto serve per fare il salto, il secondo sostiene la tesi opposta. Secondo lui sono proprio il Rione e le storie di chi ci lavora a rappresentare la forza di quel posto, a rendere Concettina ai Tre Santi un luogo inedito in un mondo omogeneo come quello gastronomico.
La discussione potrebbe continuare all'infinito, ma Ciro interrompe tutti e ci richiama all'ordine per il momento del caffè, dichiarando di fatto il pranzo concluso.
Della discussione, che ascoltava mentre faceva avanti e indietro, sembrava non interessargli poi molto, e se solo il futuro ci dirà quali tra le due tesi si rivelerà giusta, per adesso questo suo atteggiamento sembra dirla lunga sul presente.
Ciro, come per le pizze che portava con il motorino a 14 anni, sembra riuscire a stare sempre in perfetto equilibrio in tutto ciò che al momento lo circonda: tra novità e tradizione, tra il mondo stellato e quello del rione, tra entusiasmo di fare e umiltà di farsi aiutare, tra il suo lavoro quotidiano e le attenzioni esterne.



Falafel

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I falafel (in arabo: فلافل, falāfil; in ebraico: פלאפל, traslitt. falāfel) sono una pietanza mediorientale costituita da polpette di legumi speziate e fritte. Tra i legumi più utilizzati le fave, i ceci e i fagioli tritati e conditi con sommacco, cipolla, aglio, cumino e coriandolo. I falafel sostituivano la carne nei giorni del digiuno dei copti egiziani. Il termine è formato da tre parole che in copto significavano letteralmente 'con tanti fagioli'.
I falafel sono particolarmente diffusi in Palestina, Israele, Siria, Giordania ed Egitto (qui noti principalmente nella versione a base di fave col nome di طعمية, traslitt. ta'amiyya).
Le fave, crude e senza buccia, devono essere lasciate in ammollo una notte, dopo di che si tritano finemente e si aggiungono le spezie con poco sale. In alternativa si possono unire anche le uova per rendere l'impasto compatto ed evitare che le polpette si sbriciolino. Le polpettine possono essere impanate a piacere con i semi di sesamo e poi fritte in olio ad alta temperatura. Man mano che cuociono si mettono a scolare su carta paglia e si servono calde preferibilmente con hummus (crema di ceci, tipica del medioriente).
I falafel si servono normalmente con hummus, ma anche con yogurt e/o con verdure (in genere pomodori e cetrioli, sia al naturale che sotto aceto), in un pane arabo soffice e basso (خبز عربي, traslitt. hubs 'arabi, saj, o marquq, o pita), che si arrotola facilmente oppure si apre come una tasca per contenere gli ingredienti.
Il grande successo dei falafel è dovuto alla loro economicità e praticità. In Medio Oriente sono reperibili ovunque, anche come cibo di strada, dalle bancarelle delle grandi città a quelle dei villaggi, o nelle stazioni di rifornimento nel deserto; in Europa sono stati introdotti dalle rosticcerie turche come alternativa vegetariana al kebab. In Italia alcuni ristoranti li servono sopra la pizza. L'ideale è mangiarli appena fatti: freddi o riscaldati perdono la loro fragranza.

 
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